Piergiorgio Odifreddi ospite del Centro Mente/Cervello, foto archivio Università di Trento

Eventi

IL PENSIERO ARTIFICIALE

Intervista a Piergiorgio Odifreddi, ospite del Centro Mente/Cervello nell’ambito degli incontri “Neuroscience&Society”

16 novembre 2016
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di Marinella Daidone
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell'Università di Trento.

Matematico, logico, divulgatore, Piergiorgio Odifreddi è stato ospite del Centro Mente/Cervello dove ha tenuto la conferenza “Il pensiero artificiale”. Introdotto dal professor Massimo Turatto, lo studioso è stato accolto da un pubblico numeroso che ha partecipato con grande entusiasmo. Odifreddi ha insegnato logica presso l’Università di Torino e la Cornell University, collabora a “la Repubblica” e “Le Scienze”. Il suo ultimo libro si intitola “Dizionario della stupidità” (Rizzoli, 2016).

Professor Odifreddi, ci può brevemente accennare il tema dell’incontro?
Volevo fare una piccola storia di come si è arrivati all’idea di rendere artificiale il lavoro della mente, ma anche del corpo, perché sono due parti complementari. La cosiddetta “intelligenza artificiale” li contempla entrambi: da un lato abbiamo la robotica, che con automi simula il corpo umano, dall’altra c’è l’intelligenza artificiale in senso stretto, che simula il prodotto della mente. L’origine di questo progetto è antichissima. Per abbreviare, possiamo partire da Leibniz, o ancora prima dal filosofo cristiano del ’300 Lullo. Fu Leibniz ad avere l’idea di riuscire a fare un calcolo del ragionamento. Invece di fare una discussione, si fa un calcolo del ragionamento e si ottiene un risultato (Leibniz era anche un diplomatico e quindi doveva spesso fare “discussioni”). C’è voluto parecchio, però, per proseguire su questa strada: nell’800 Boole inventa quella che oggi chiamiamo algebra booleana e nel '900 Turing inventa il computer. Dopo la seconda guerra mondiale, con la costruzione del computer, si è cominciato a porsi questi problemi e questi progetti confluiscono.

Parafrasando il titolo di un suo libro [In principio era Darwin, ndr], potremmo dire “In principio era Turing”? 
No, la cosa interessante è proprio che in principio  “non” era Turing. Quando uno chiede alla gente chi ha inventato il computer in genere i nomi che vengono fatti sono Bill Gates o Steve Jobs, che li hanno commercializzati, ma il computer arriva da ben altra storia. 
Recentemente un paio di film, qualche anno fa “Enigma” e poi “The imitation game”, hanno fatto conoscere Turing al pubblico. La cosa straordinaria è che il lavoro di Turing del 1936, quando lui aveva credo 24 anni, era la sua tesi di laurea ed era il progetto completo del compilatore. Ma un secolo prima, nel 1837, c’era un signore meno noto che si chiamava Charles Babbage, che aveva avuto la stessa idea e l’aveva sviluppata nello stesso modo di Turing. Era un’era pre-industriale e l’elettricità era poco diffusa, così Babbage aveva avuto l’idea di fare un computer a vapore. Sarebbe stato forse un po’ difficile da portare in tasca, forse sarebbe diventato uno scaldino tascabile! Per far leggere il programma alla macchina e prese ispirazione dai telai dell’epoca, il cosiddetto telaio Jacquard, che serviva per fare le maglie con le decorazioni. Jacquard aveva inventato dei fogli perforati in cui salivano gli aghi, si inserivano dei fili, poi gli aghi scendevano e veniva creato il disegno. È da lì che nacquero le schede perforate che negli anni ‘50 e ‘60 si usavano ancora. Quelli che hanno programmato in linguaggio Fortran dovrebbero ricordarle. In principio, quindi, c’era Leibniz, è stato lui che ha avuto l’idea di formalizzare il linguaggio e di renderlo automatizzato. E sicuramente prima di Turing, c’era il signor Babbage. 

Qual è il rapporto tra intelligenza umana e artificiale?
In realtà ci sono tre tipi di intelligenza, non bisogna dimenticare quella animale. L’intelligenza meccanica in teoria si dovrebbe situare al livello più basso, quella che Huxley chiamava “intelligenza militare”, cioè ubbidire ciecamente agli ordini senza discutere. L’intelligenza umana dovrebbe invece situarsi all’estremo opposto: gli uomini, lungi dall’ubbidire a regole fisse, sono creativi, sanno giocare a scacchi, sanno dimostrare teoremi di matematica e cose del genere. In mezzo c’è l’intelligenza animale, che è un po’ più evoluta di quella meccanica e militare e che dovrebbe essere meno evoluta di quella umana.

Si pensava che imitare l’intelligenza animale sarebbe stata una cosa semplice. Già Cartesio aveva questa idea quando nel suo nuovo “Trattato sull’uomo” spiegava che l’uomo era fatto di mente e di corpo. La mente è una cosa separata, immateriale. Il corpo è quello che ci accomuna con gli animali che per Cartesio sono degli automi, delle macchine un po’ più sofisticate e si comportano in maniera puramente meccanica seguendo quelli che oggi chiameremmo “istinti”. Si pensava che sarebbe stato semplice per i computer imitare gli animali e difficilissimo imitare l’uomo. La cosa straordinaria è che è successo esattamente il contrario. Le macchine riescono a imitare bene l’uomo, per esempio quando gioca a scacchi, anzi talmente bene che ormai i campioni di scacchi vengono battuti dai computer. Il computer ha dimostrato congetture che erano aperte e che i matematici non erano mai riusciti a risolvere. In alcuni casi c’è un’interazione uomo-macchina, si dimostrano teoremi usando la potenza di calcolo delle macchine. Non si riesce invece a imitare l’intelligenza animale: per esempio il riconoscimento dell’immagine, di un volto o di una persona che qualunque cane o gatto riesce a fare al volo, i computer ancora non lo fanno bene. Quindi è risultato essere molto più complicato imitare l’intelligenza animale che non quella umana da parte dell’intelligenza meccanica.

Cosa pensa delle neuroscienze? 
Le neuroscienze sono le scienze del futuro perché ci spiegano come funziona quella macchina meravigliosa che è il nostro sistema nervoso. 
Una volta credo si immaginasse che le neuroscienze dovessero occuparsi di spiegare le reazioni istintive, pavloviane o cose del genere. Oggi invece, per fare solo un esempio, abbiamo studi sulle aree cerebrali coinvolte nella percezione estetica. Quindi l’estetica, uno dei grandi campi che si pensava sarebbero sempre stati monopolio dell’umanesimo, rientra perfettamente in quest’ambito scientifico. 

Che cos’è, secondo Lei, la divulgazione scientifica?
In genere si pensa alla divulgazione scientifica in un’accezione molto ristretta. 
Molto di quello che si considera giustamente ricerca in pratica è divulgazione di quelle grandi idee che arrivano una volta o due al secolo e che poi tutti noi, persone più piccole, dissodiamo piano piano. Nel 1953 Watson e Crick hanno scoperto il DNA. Molto di quello che è avvenuto dopo, per decenni, è stato cercare di divulgare in senso lato, ossia di trovare le implicazioni di questa grande scoperta. Il primo livello della divulgazione è quindi la ricerca stessa: si usano le idee altrui, le grandi idee, e gli si dà nuova vita.
C’è poi un tipo di divulgazione interdisciplinare, che si rivolge anch’essa a professionisti e fa circolare le informazioni da un campo all’altro. Oggi le scienze sono interconnesse. Ad esempio un biologo che si occupa di DNA è bene che sappia cosa accade nel campo della matematica, dell’informatica, della fisica e della chimica. Si tratta di far circolare le idee, come quelle correnti che ci sono negli oceani e nei mari. Tra gli strumenti utilizzati ci sono gli articoli scientifici per il primo tipo di divulgazione, i libri di testo adottati nelle varie discipline (ad esempio un manuale di matematica per gli studenti di medicina) per questo secondo tipo.

Poiché si suppone che chi si occupa di scienza abbia dimestichezza con il linguaggio tecnico e con i metodi della scienza, quando si vuole allargare il campo agli umanisti bisogna annacquare un po’ le cose. Si tratta sempre di una divulgazione di alto livello rivolta a tutto il mondo intellettuale. Penso ad esempio alle lezioni che fanno ormai abitualmente gli studiosi che ricevono il Nobel per spiegare le loro scoperte.
Poi finalmente c’è quella che di solito viene chiamata “divulgazione" ed è rivolta alla persona comune che legge il giornale, accende la televisione o la radio o va in Internet. Lì di “scienza” in senso stretto non c’è quasi più niente, è stata dissolta diventando quasi omeopatica. Su un giornale non si può certo scrivere usando le formule, o fare delle cose troppo specifiche. Quindi bisogna riuscire a stimolare la curiosità della gente, dei lettori, degli spettatori, degli ascoltatori. Questo lo si fa in tutti i modi, scrivendo sui siti, facendo festival, conferenze, scrivendo libri divulgativi, però di un genere diverso da quelli di cui parlavamo prima.