Concerto del coro della SAT, foto archivio Università di Trento

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I CANTI DELLA GUERRA

Il coro della SAT chiude il ciclo “La Grande Guerra: storia e storie”. Ne parliamo con Antonio Carlini, esperto di repertorio corale dell’arco alpino

12 giugno 2015
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Marco Uvietta
di Marco Uvietta
Docente di Musicologia e Storia della musica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

Antonio CarliniIl 22 maggio scorso si è concluso il ciclo di conferenze e incontri “La Grande Guerra: storia e storie” organizzato dal Dipartimento di Lettere e Filosofia in collaborazione con la Provincia autonoma di Trento e l’IPRASE. Presso l’Auditorium S. Chiara di Trento, il Coro della SAT (Società Alpinisti Tridentini) diretto da Mauro Pedrotti ha chiuso il ciclo con un concerto di canti di guerra che ha riscosso grande successo di pubblico. Il concerto è stato introdotto da una conferenza su “I canti della guerra” tenuta da uno dei massimi esperti italiani di repertorio corale dell’arco alpino, il professor Antonio Carlini, docente di Storia della musica presso il Conservatorio di Brescia (nell'immagine a destra).

Molti sono convinti che i canti della guerra coincidano in gran parte con il repertorio della SAT. È vero? 

Ovviamente il Coro della SAT non ha mai detto questo, ma è una conseguenza della sua grande fama. Erroneamente molti pensano che i soldati cantassero solo quei canti, oppure che i Canti “di guerra” e “di montagna” siano la stessa cosa. 

Come è stato selezionato questo repertorio?

Negli anni Venti-Quaranta un preciso progetto culturale rimosse una serie di canti “scomodi”, come quelli incentrati sul tema dei “nemici traditori” (per esempio "Bombardano Cortina", armonizzata dall’austriaco Luigi Pigarelli), oppure di accusa politica nei confronti del mondo intellettuale ("Addio padre e madre addio", dove si maledicono gli studenti che nel 1915 avevano assaltato il Parlamento italiano spingendolo ad approvare l’intervento in guerra) o della gerarchia militare ("Gorizia tu sei maledetta": «Traditori signori ufficiali/ Che la guerra l’avete voluta/ Scannatori di carne venduta»; durante la battaglia di Gorizia, all’inizio di agosto del 1916, morirono quasi 100.000 uomini fra italiani e austriaci). 

Ma gli italiani sapevano cosa si era cantato al fronte. Perché questo “progetto culturale” fu così efficace? 

Nella prefazione del 1931 ai "Canti alpini" raccolti da Domenico Serra, il Presidente dell’Associazione nazionale alpini e poi del CAI Domenico Manaresi indicava alcuni temi ricorrenti, che si concentravano attorno alle parole chiave “mamma”, “fanciulle”, “cime”. Ma tutti i canti erano (o meglio, dovevano essere) permeati da «un senso di religiosità profonda, di amore di Patria e di Casa, un buon odor di pane domestico, un sereno disprezzo della morte». Il repertorio così selezionato fu diffuso in libretti sia con il solo testo letterario sia con la musica. Nel 1930 la raccolta di testi letterari di Serra aveva già venduto 15.000 copie, l’edizione con le musiche 1.000. Si stamparono decine di questi libretti e libriccini, diffusi proprio fra il 1920 e il 1930, anche nelle scuole. Pure il Coro SOSAT (Sezione Operaia Società Alpinisti Tridentini)/SAT negli anni Trenta pubblicò una propria antologia. 

Ma cosa si cantava realmente al fronte?

Le canzoni del tempo di pace, come si legge nell’articolo "Le canzoni della trincea" pubblicato sul «Nuovo Trentino» nel 1923. I temi erano gli stessi: «la figura dell’amata, quella della mamma, l’ombra del campanile, il profumo agreste, la luce dell’alba e quella del tramonto». Nel primo anno di una guerra che nessuno immaginava così lunga, la creatività è minima: i testi delle canzoni già note in tempo di pace vengono adattati, parafrasati, arricchiti di strofe ad hoc, talvolta parodiati in chiave ironica («Il General Cadorna ha perso l’intelletto / chiamò il ’99 che bagna ancora il letto!»). Più si procede negli anni di guerra, più il repertorio si arricchisce e passa anche nelle mani di professionisti. Così si creano le canzoni di guerra più famose, che rispondono a qualsiasi esigenza affettiva attingendo al repertorio popolare, intrecciando la canzone napoletana con il vaudeville, ispirandosi agli inni, alla marcia, alla romanza d’opera. 

Esistono canzonieri pubblicati per il Trentino?

Recentemente ho avuto la fortuna di trovarne alcuni, partiture manoscritte risalenti agli anni dal 1865 al 1912, che ci ricordano molti dei canti portati dai nostri soldati sui fronti della Galizia. Uno di questi canzonieri mi era stato prestato dallo stesso Silvio Pedrotti. Su quei canti già armonizzati a tre voci maschili (due tenori e un basso), egli aveva aggiunto a matita le proprie idee per una nuova armonizzazione a quattro voci, con l’inserimento dei baritoni. Molti di essi sono entrati nel repertorio del Coro della SAT, che quindi è partito dalla tradizione popolare trentina, riprendendo il modo di armonizzare dell’Ottocento grazie al lavoro di Antonio e Silvio Pedrotti e di Pigarelli. Renato Dionisi, Arturo Benedetti Michelangeli e Andrea Mascagni hanno sviluppato ulteriormente l’aspetto armonico, ma ispirandosi a quel modello. 

In che modo le situazioni contingenti influenzarono gli aspetti stilistici del repertorio?

La Grande Guerra fu combattuta sulle montagne e quindi il tema della montagna è assolutamente prevalente. Fu anche una guerra lunga e stanziale, che costrinse un numero enorme di giovani a una convivenza forzata, favorendo una mescolanza di culture regionali senza precedenti in Italia. Per questo nel repertorio del Coro trentino della SAT sono finiti canti della tradizione friulana o piemontese. Ma dietro le trincee c’erano le Case del soldato per i periodi di riposo, dotate di spazi per concerti, operette, circo, burattini, cinema, ballo e ascolto dei primi dischi. Molti ufficiali, di estrazione borghese o aristocratica, erano buoni musicisti. Quindi una memoria musicale complessa e articolata fu serbatoio di un repertorio che solo per comodità possiamo definire “Canti di guerra”. 

Quali sono le fonti dell’invenzione musicale di questo repertorio?

Per quanto riguarda la composizione delle musiche – quelle anonime, definite normalmente “popolari” – il discorso è molto complesso. Nella musica popolare, più che di un processo di creazione si preferisce parlare di trasformazione. La maggior parte delle canzoni che parlano della guerra raccontano una storia: il figlio che lascia la madre, un eroe che muore in battaglia, un amore spezzato dalla morte. Sono composizioni narrative solitamente brevi, costruite sui modelli dei cantastorie, delle ballate, quindi con strutture strofiche in rima e andamenti solitamente lenti. In genere la melodia procede secondo schemi costanti ed è formata da moduli semplicemente accostati, assemblabili in molti modi diversi. È come giocare a “domino” con la memoria, traendo le tessere da varie fonti orali. Per questo è difficile risalire al modello originale; ora la memoria pesca da un vecchio canto di filanda, ora da un canto politico del 1848, ora da una romanza d’opera...