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UN SISTEMA PRODUTTIVO FRAMMENTATO

Le piccole e medie imprese italiane e il problema della crescita dimensionale

12 novembre 2015
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Sandro Trento
di Sandro Trento
Professore ordinario presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento.

Il sistema produttivo italiano è caratterizzato dal predominio delle piccole e piccolissime imprese. Secondo i dati dell’ultimo Censimento dell’industria e dei servizi Istat (2011), in Italia ci sono circa 4,2 milioni di imprese che impiegano circa 16,4 milioni di addetti. In Italia ci sono più imprese che in altri paesi: sono infatti 2 milioni in Germania, 2,2 in Francia, 1,6 nel Regno Unito e 2,5 in Spagna.
Le piccole (meno di 50 addetti) e micro (meno di 10 addetti) imprese, nell’economia italiana, rappresentano circa il 99,4% delle unità totali. In nessun altro paese avanzato si riscontra un grado di frammentazione produttiva pari al nostro.

A partire dagli anni Settanta, in tutti i paesi avanzati si è registrato un processo di de-verticalizzazione delle imprese e una riduzione della dimensione media, causati da una serie di fattori tecnologici ed economici. 
In Italia questo fenomeno è stato molto più accentuato. Oltre ai mutamenti tecnologici, hanno giocato un ruolo importante il minor costo del lavoro e la maggiore facilità di evasione fiscale associati alla piccola dimensione. Le politiche di sostegno alle piccole e medie imprese (PMI) hanno incentivato la frammentazione. Sono inoltre state introdotte, in Italia, numerose norme condizionate a soglie dimensionali: ad esempio, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (1970) che si applicava solo alle imprese con oltre 15 dipendenti (ma anche, tra gli altri, l’obbligo di assunzione di categorie di lavoratori protetti) e che ha probabilmente scoraggiato la crescita dimensionale. 
A partire dagli anni Ottanta le PMI sono diventate il cuore del nostro sistema produttivo. In Italia, oggi, le grandi imprese sono poche e sempre meno grandi. Né il vasto processo di privatizzazione delle imprese pubbliche, a metà degli anni Novanta, è riuscito a rafforzare il sistema industriale. 

Il predominio delle PMI è legato anche al fatto che siamo specializzati in settori nei quali non ci sono economie di scala e quindi la dimensione minima efficiente è modesta: meccanica, tessile e abbigliamento, cuoio e calzature, arredo casa, alimentare, servizi tradizionali. Ma le imprese italiane sono anche più piccole, in media, di quelle di altri paesi avanzati appartenenti allo stesso settore; vi è, insomma, un nanismo generalizzato. 
Ci sono almeno due tipi di piccole imprese: quelle “appena nate”, e quelle “anziane” mai cresciute. In tutti i paesi le imprese nascono piccole, ma poi molte diventano grandi. In particolare, ci sono piccole imprese ad alta crescita (high growth firms) che crescono molto rapidamente nei primi tre o cinque anni di vita: si tratta solitamente di imprese appartenenti a settori moderni, legati all’economia dell’informazione e digitale. In Italia queste imprese sono piuttosto scarse. 

La questione allora non è tanto quella del vastissimo numero di piccole imprese, ma quello della scarsa crescita dimensionale. Si cresce in due modi: per accrescimento della capacità produttiva (ad esempio, le high growth firms) o per acquisizione esterna di altre imprese. In Italia ambedue questi meccanismi non funzionano. Studi recenti mostrano che i sistemi produttivi avanzati sono molto eterogenei, e gran parte dell’attività innovativa e delle esportazioni sono concentrate in poche imprese. Ciò che conta è avere almeno alcuni grandi players in vari settori produttivi. La presenza di grandi players genera ricadute sul tessuto produttivo, attraverso l’outsourcing di alcune funzioni, attraverso le collaborazioni, attraverso le acquisizioni. 
Molti imprenditori italiani sono motivati dall’idea di ottenere un reddito senza dover sottostare al controllo di altri. L’impresa diventa quindi un progetto di vita indipendente. Le competenze di cui si dispone sono per lo più di tipo produttivo, non strutturate, senza formazione universitaria, acquisite attraverso esperienze di lavoro. Si decide allora di entrare nei settori che già si conoscono, nei quali si è acquisita esperienza lavorativa; si entra in settori nei quali si può osservare il comportamento di altri (spesso ex operai) che hanno fatto la scelta imprenditoriale. Molta della nostra imprenditorialità è quindi di tipo “replicativo”, tende a riproporre modelli già noti; manca l’imprenditorialità innovativa, quella che si fonda su soluzioni radicalmente nuove.

L’entrata in settori tecnologicamente avanzati richiederebbe competenze che, del resto, non sono diffuse in Italia. Vi è inoltre una vera “ossessione del controllo”, dal momento che i nostri imprenditori vogliono restare padroni della propria azienda senza dover ricorre a nuovi soci o al mercato dei capitali. Tuttavia, la crescita dimensionale rapida non può aver luogo senza la raccolta di capitali freschi dall’esterno: l’autofinanziamento e il debito bancario non sono infatti adatti a questi scopi.

Il 4 novembre scorso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento ha ospitato l’incontro “Sulla crescita delle piccole imprese: il ruolo della finanza”, che ha visto come ospite il Vice direttore generale della Banca d'Italia Luigi Federico Signorini, introdotto dal professor Sandro Trento.