Ritorno dei Magi, Giovanni di Pietro Falloppi, 1410 ca, San Petronio, Bologna - Wikimedia Commons

Eventi

Lingue franche

Dall’yiddish, al pidgin africano, alla lingua franca parlata nei porti del mediterraneo

10 febbraio 2021
Versione stampabile
Serenella Baggio
di Serenella Baggio
Professoressa associata del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

Perché si inventano le lingue? Dante pensava che le persone colte, volendo riparare ai danni provocati dalla punizione di Dio per la Torre di Babele, avessero creato una lingua scritta, la gramatica, cioè il latino, per lui una lingua artificiale. Nei secoli della storia del pensiero linguistico si oscillò tra il desiderio di recuperare un’unità originaria delle lingue e il progetto di inventare una lingua perfetta, più perfetta anche del latino, perché basata su universali linguistici, quindi logica in massimo grado (si pensi a Leibniz).

Il confronto con tutt’altra tradizione, quella cinese, mostra come sia soprattutto la scrittura a prestarsi bene allo sforzo di razionalizzazione, in contrasto con le lingue naturali, le nostre lingue storiche, parlate prima che scritte, piene di contraddizioni e difficili da imparare, sistemi instabili. In tempi più vicini a noi sono emerse lingue di semplicità pianificata, il volapük o l’esperanto; per i loro sostenitori comprendersi significa superare le barriere etniche in un’idea di umanità universale. 

Quando si parlano lingue molto diverse in che modo si può comunicare? Oggi la lingua franca per eccellenza è l’inglese. In passato vari gruppi sociali hanno cercato a diversi livelli soluzioni pratiche all’incomprensione reciproca delle lingue in contatto. I gerghi storici parassitano parole e strutture dalle lingue naturali manipolandole e deformandole per definire lo spazio linguistico della marginalità in movimento rispetto allo spazio degli stanziali. Ora resta ben poco di un fenomeno in passato rilevante se ricordiamo com’era diffuso tra gli uomini che scendevano stagionalmente dalle valli montane del Trentino per vendere prodotti e servizi in pianura.

Il gergo era segreto solo in quanto era esclusivo e serviva ad essere riconosciuti dai simili; lo sapevano quelli che condividevano lo stesso stile di vita, solidali tra loro, a prescindere dalla provenienza geografica e dalla lingua madre. Oggi lo si trova ancora nei giostrai, sempre più assorbiti, però, dall’élite marginale dei romanì. Altre lingue di necessità e di mediazione si formarono nei porti del Mediterraneo dove si commerciava a dispetto della differenza linguistica.

Il convegno Lingua franca, lingue franche, che si è tenuto dei giorni scorsi, è stato dedicato per una buona parte alla lingua franca mediterranea, attestata fin dal ’200, anche se sporadicamente, da varie testimonianze letterarie riflesse riferite a un Levante dove italiani, spagnoli e portoghesi incontravano i mori e usavano le proprie lingue romanze mettendo il verbo all’infinito e i nomi a un singolare buono anche per il plurale. Si pensi ad esempio al Contrasto della Zerbitana, o a personaggi esotici della novellistica e del teatro che parlano all’infinito (così la schiava moresca nella cornice del Pentamerone di Basile). 

Dopo il ’500 questa lingua si concentra nei porti maggiori del Maghreb, Algeri, Tunisi, Tripoli, dove venivano portati i cristiani catturati da corsari musulmani; una lingua di schiavi, dunque. Ma è anche una lingua di marinai sulle navi, dettata dalla necessità di intendersi vista la grande eterogeneità delle ciurme. E la si chiama sabir nella forma più nota, studiata linguisticamente quando i francesi conquistarono Algeri nel 1830. La sintesi più preziosa di tutti questi aspetti si trova ancora in un articolo del 1909 del grande Hugo Schuchardt, che mostrò il carattere di pidgin della lingua franca, accostandola al baby talk e al foreigner talk.

Un’altra sezione del convegno ha riguardato le lingue franche non mediterranee. Era interessante aprire comparativamente lo sguardo a realtà lontane nello spazio e nel tempo, studiate anche con ricerche di campo. Ha avuto una vita lunga la lingua franca degli ebrei dell’Europa centro-orientale, l’yiddish, oggi una delle lingue ebraiche più diffuse nel mondo, Mischsprache fondata sul medioaltotedesco.

La lingua franca degli slavi, lo slavo comune, invece, sta all’origine della divisione delle lingue slave. Nel Messico precolombiano l’Impero Azteco aveva trovato la sua lingua franca nel nahuatl, la lingua della città egemone, Tenochtitlan, impostasi sulla miriade delle lingue amerindiane, profondamente diverse tra loro e non comunicanti.

In tempi a noi più vicini, nell’Africa orientale sono pidgin a base araba ad assolvere la funzione di lingua franca; l’arabo è l’elemento linguistico unificante, interetnico, che guida anche la grafizzazione delle lingue africane. Simmetricamente, in Africa occidentale sta crescendo il peso di una lingua franca, il dyula, che fin dal Medioevo ha fatto da lingua veicolare per i commerci e l’espansione dell’Islam; la semplicità della sua struttura lo rende ora adatto a superare i particolarismi locali nel processo di modernizzazione in corso.

Gli atti del convegno Lingua franca, lingue franche usciranno per l’Editore Dell’Orso entro la fine del 2021. Dello stesso editore sono da poco usciti gli atti di Lingue naturali, lingue inventate, convegno trentino del 2019, primo di una serie sui rapporti non genetici tra le lingue del mondo.  

Il Dipartimento di Lettere e Filosofia e il Centro Alti Studi Umanistici (CeASUm) dell’Università di Trento hanno organizzato lo scorso 5 febbraio una giornata di studi con specialisti della materia dedicata alle lingue franche. Responsabili scientifici: Serenella Baggio e Pietro Taravacci.