Una lezione alla School of Innovation ©UniTrento - Ph. Federico Nardelli

Formazione

Insegnare: non si finisce mai di imparare

Conversazione con Paola Venuti, prorettrice alla didattica e ordinaria di Psicologia dinamica al Dipsco

18 settembre 2023
Versione stampabile
di Alessandra Saletti e Lorenzo Perin
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Insegnare è una sfida. Richiede un confronto continuo con impostazioni e aspettative in perenne evoluzione. Ma è anche un costante mettersi alla prova, sperimentare, ripensarsi, cercare di stare al passo. Stimolare le menti, lasciandole libere nell’apprendimento. Per l’Ateneo trentino la qualità della didattica è una questione seria, da affrontare con un mix di metodo e creatività. In questo speciale UniTrentoMag va alla scoperta delle nuove metodologie didattiche. Esploriamo insieme le attività del Formid, il Centro di Ateneo per l’apprendimento e l’insegnamento.

Il mio solito modo di insegnare funziona ancora? Prima o poi questa domanda passa – o dovrebbe passare – nella testa di chi da anni tiene lezioni universitarie. Succede perché l’insegnamento obbliga a un confronto continuo con generazioni di persone che hanno aspettative diverse da quelle di ieri e talvolta si avverte la necessità di un aggiornamento dei proprio metodi, del linguaggio o della stessa modalità di relazione con chi apprende. Ma quali sono le origini di questa necessità di rivedere la didattica? Ce lo spiega Paola Venuti, prorettrice alla didattica e professoressa ordinaria di Psicologia dinamica al Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive.

«Lo vediamo ogni giorno intorno a noi - commenta Venuti: le competenze richieste dal mondo lavoro sono molte di più e si sono evolute. Grazie all’avvento delle nuove tecnologie, si viene esposti sin dalla tenera infanzia a stimoli diversissimi da quelli di un tempo. Persino le stesse famiglie oggi si stanno trasformando al loro interno. In una società così soggetta al cambiamento, è evidente che l’educazione non possa restare ferma a 60 anni fa. Eppure è ciò che è successo.
Oggi invece dobbiamo prendere atto che la formazione va ancora più orientata a sviluppare professionalità. Quanto viene appreso all’università deve fornire le competenze per affrontare il mestiere per cui gli studenti e le studentesse si stanno preparando. Ecco perché ci serve una modalità d’insegnamento più interattiva e partecipativa, orientata alla pratica, che sia realmente in armonia con il modo in cui la società è cambiata. Ma che sia anche in linea con le attitudini dei ragazzi e delle ragazze di oggi».

E in che modo sono cambiate loro, le nuove generazioni, rispetto al rapporto con l’apprendimento?

«Nella vita di tutti i giorni, i giovani sono abituati a ruoli molto più attivi rispetto a quelli che viene chiesto loro di adempiere nella scuola di tipo tradizionale. Hanno una forma mentis che li conduce a non partecipare con lo stesso interesse alle lezioni tradizionali.
Sono esposti a un’informazione molto più vasta, ma al contempo più frammentaria di un tempo. Molto più disponibile, ma quindi anche più dispersiva. Se una volta la conoscenza passava per i canali tradizionali di libri, riviste e al massimo qualche programma TV, oggi con Internet in tasca e una programmazione TV dalla proposta illimitata abbiamo il mondo intero a portata di mano. Ma siccome le energie cognitive che possediamo sono limitate, se si guadagna in vastità, è quasi inevitabile perdere in profondità.
Dal punto di vista delle competenze, studenti e studentesse, poi, sono meno bravi ad ascoltare la lezione e a rispondere alle domande, oltre che meno sollecitati a farlo, a causa della sovradisponibilità di stimoli con cui sono cresciuti. Dall’altra parte, sono molto più bravi a servirsi delle informazioni, metterle in relazione, cercare e trovare le fonti, combinarle come se fossero un puzzle. Tessere una nuova dimensione del reale per costruire un quadro complessivo, del tutto originale. Sono più attivi, creativi. È questa osservazione che ci muove alla necessità di una didattica dall’impostazione nuova, più flessibile, ripensata».

Lei, come docente, come si è accorta di questo cambiamento?

«È stata una scoperta graduale. Da anni insegno Psicologia dinamica, una materia che è sempre piaciuta tantissimo agli studenti. Ero abituata a ricevere da loro un sacco di domande durante e a fine lezione. Verso il 2010 ho iniziato ad accorgermi di qualcosa che stava cambiando: le domande si facevano sempre più rare, anche se sollecitate. Mi trovavo dall’altra parte un muro di silenzio.
Così ho deciso che avrei dovuto fare qualcosa. All’inizio, ammetto, ho improvvisato. Ho cercato di cambiare il mio modo di insegnare ribaltando le parti. Ho lasciato che fossero loro – gli studenti e le studentesse – a spiegare in aula un autore o i vari concetti, dopo averli preparati da soli con poche indicazioni iniziali da parte mia. Ho notato subito che la loro capacità di esposizione e di coinvolgimento del pubblico poteva essere facilmente migliorata con qualche esercizio o suimulazione specifica. Ma quello che mi ha colpito è stata la loro vivacità, l’intraprendenza e la capacità di ricerca autonoma. Abilità che non mi aspettavo. Li ho visti andare oltre i testi che gli avevo dato, sviluppare ragionamenti e rielaborazioni critiche molto profonde. Alcune presentazioni, dal punto di vista grafico e comunicativo, devo riconoscere che erano erano più belle della mie!».

Quindi dobbiamo abituarci ad un cambiamento radicale nel modo di insegnare e apprendere?

«Ovviamente no, le lezioni frontali saranno sempre indispensabili per fornire un background, una forma mentis e un nucleo teorico di base agli studenti e alle studentesse che si approcciano a una nuova materia. Ma anche la didattica tradizionale può essere ripensata. Rimango dell’idea, ad esempio, che la dinamica domande-risposte sia utile all’apprendimento. Ma anziché aspettarmi che sia chi apprende a porre interrogativi o a cercare il confronto, ho impostato alla fine di ogni corso un’apposita lezione di domande e risposte. Gli studenti sono chiamati a presentarsi a quella specifica lezione portando i loro dubbi e le loro curiosità. Dedichiamo quelle due ore ad approfondirle insieme. Ho visto che questa formula è molto apprezzata da loro, perché hanno il tempo di prepararsi a intervenire in pubblico».

L’Ateneo ha messo in campo in questi ultimi anni una serie di iniziative sperimentali per incentivare il rinnovamento dei metodi della didattica. Quale è stata la reazione da parte del corpo docente?

«Siamo molto soddisfatti della risposta e dell’entusiasmo di chi si è accostato alle varie iniziative che abbiamo promosso. L’Ateneo ha risposto bene, con circa un quarto dei professori che si sono fatti avanti e messi in discussione. Un ottimo segnale. Una delle ultime iniziative, già molto apprezzate, riguarda lo sviluppo di un team di "educational developer" che affiancano i docenti per aiutarli a riorganizzare il loro metodo di insegnamento. Chiaramente un docente di psicologia ha un diverso margine di autonomia rispetto a - per esempio - uno di fisica nello sperimentare autonomamente le innovazioni. Tuttavia, docenti di tutte le materie si sono mostrati entusiasti di riconsiderare la propria didattica.
In UniTrento stiamo anche creando delle comunità di pratica, in cui i docenti si riuniscono in maniera informale, discutono di problemi, scambiano esperienze, creano collaborazioni. Anche questa è una formula che piace. Le attività rientrano nell’ambito della programmazione del Formid, il Centro di Ateneo per l’apprendimento e l’insegnamento, che nelle prossime settimane riprenderà la programmazione con nuove attività dedicate all’aggiornamento dei docenti».