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Formazione

COME RAGIONARE BENE NELL’ERA DELLA POST-VERITÀ

Studiosi di logica e filosofi del diritto a confronto in un seminario organizzato a Giurisprudenza

15 dicembre 2016
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COME RAGIONARE BENE NELL'ERA DELLA POST-VERITÀ
COME RAGIONARE BENE NELL'ERA DELLA POST-VERITÀ
di Maurizio Manzin e Federico Puppo
Rispettivamente professore ordinario e professore associato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento.

Nella vita di tutti i giorni ognuno di noi compie un gran numero di ragionamenti: operazioni mentali con le quali giustifichiamo certi enunciati (le conclusioni del nostro ragionamento) avendoli “inferiti” (cioè derivati) in maniera “valida” (cioè logica) da altri enunciati (le premesse del nostro ragionamento). Un’attività complessa, ma talmente familiare che neppure ce ne accorgiamo. Infatti, ragioniamo ogni volta che decidiamo quale film guardare, come occupare il nostro tempo libero, perché compiere certe azioni piuttosto di altre, eccetera. 

Lo stesso accade quando dobbiamo esprimere giudizi e valutazioni su eventi che riguardano in modo eminente la vita sociale, per esempio in quegli ambiti che Aristotele aveva individuato e classificato con l’appellativo di “deliberativo” (riguardo alla politica) e “giudiziale” (riguardo al diritto). Nel primo caso si tratta di valutare possibili scenari futuri, in base ai quali formulare le leggi più opportune; nel secondo caso si tratta di valutare fatti e comportamenti passati, sulla base dei quali formulare una sentenza. Tuttavia, più spesso di quanto si creda, il nostro ragionare può nascondere delle insidie e condurci ad errori, noti agli specialisti con il nome di “fallacie”. Esse dovrebbero venir riconosciute e smascherate, per evitare di accreditare tesi che, ad un più attento esame, risulterebbero invece meritevoli di essere respinte. 

Allo studio del ragionamento, con specifico riferimento al diritto, sono dedicati alcuni corsi istituzionali nella Facoltà di Giurisprudenza, come quelli di Filosofia del diritto - Corso avanzato (per gli studenti del quinto anno) e di Deontologia e metodo delle professioni legali, e i loro docenti intrattengono da tempo un fruttuoso dialogo con esperti dei diversi settori implicati dalla materia. Fra questi, la professoressa Katya Tentori del Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive - Centro Interdipartimentale Mente/Cervello – (DIPSCO-CIMEC) del nostro Ateneo, studiosa delle fallacie logiche e del ragionamento induttivo, che volentieri si è prestata ad uno stimolante confronto con gli studenti dei due corsi nell’ambito di un seminario congiunto. La collaborazione con la professoressa Tentori nasce dall’elaborazione comune di un progetto strategico di Ateneo, nel segno dell’approccio inter- e multi- disciplinare, progetto che era stato a suo tempo presentato al fine di costituire attività scientifiche e didattiche di elevata qualità in campi di primaria importanza anche per la formazione giuridica (e che i professori Manzin e Puppo sperano di poter riproporre).

Con particolare riferimento a quest’ultimo contesto, e segnatamente alla dimensione degli studi dedicati all’ambito processuale, chi si occupa di ragionamento giuridico (cioè del ragionamento posto in essere da avvocati e magistrati) include spesso nella propria ricerca i temi dell’argomentazione e della retorica. Sono questi, infatti, i metodi propri del ragionare in giudizio, così come di ogni forma di ragionamento in cui, come avviene nel processo, si debbano valutare le ragioni pro e contro una certa tesi. Con una particolarità in più, però: che, nel caso del ragionamento giuridico, la costruzione delle “inferenze” è resa più delicata dal fatto che esso, tipicamente, ha una forma non deduttiva, dal momento che la sua conclusione (la sentenza) non segue necessariamente dalle premesse. Questo avviene ogni volta che la verità delle premesse non garantisce la verità della conclusione, o viceversa (la “verità”, infatti, è altra cosa dalla “validità” logica: ad esempio, è una deduzione valida che, poiché tutti gli Italiani amano il calcio, Gianni, che è italiano, ama il calcio; ma non è anche vera, perché non è vera la premessa generale che tutti gli Italiani amino il calcio). 

Succede, così, che si finisca per accettare qualcosa che ci viene presentato, in quanto validamente dedotto da certe premesse, mentre si tratta di una pretesa inappropriata. I sofisti di ogni risma (proprio per questo aspramente osteggiati da Platone e Aristotele) sono sempre stati molto abili nel mascherare la falsità, facendola passare per verità (tanto più che, secondo i sofisti, la verità in senso assoluto non esiste), o nel far apparire valido un ragionamento scorretto. Oggi, nella cosiddetta “post-truth era”, questi temi sono tornati di grande attualità, poiché ora più che mai dovrebbe venir considerato essenziale controllare la bontà (intesa convenzionalmente come l’insieme di verità più validità) dei ragionamenti che i diversi mezzi di comunicazione sociale diffondono rapidamente su larga scala. Riconoscere e smascherare un “fake”, perché falsamente dedotto o perché derivato da premesse false, può consentire una formazione più corretta, e dunque più giusta, del consenso. Il che significa, per tutti coloro che contribuiscono alla formazione del diritto (legislatore, giudici, pubblici ministeri, avvocati ed esperti della dottrina giuridica) poter contribuire in modo adeguato e affidabile alla vita della società, dove, come ricordava Socrate, solo se saremo in grado di insegnare ad argomentare bene prevarranno i migliori.

Il seminario “Non fa una piega: il confine (talvolta sottile) tra argomentazioni convincenti e fallacie di ragionamento”, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento e dal Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica (CERMEG), si è svolto il 21 novembre nell’ambito dei corsi Filosofia del Diritto corso avanzato e Deontologia e metodo delle professioni legali.
Responsabili scientifici Maurizio Manzin e Federico Puppo.