Achille C. Varzi durante la lectio magistralis, foto Romano Magrone, archivio Università di Trento

Formazione

SUL VIVERE BENE

Lectio magistralis di Achille Varzi, professore onorario dell’Università di Trento

7 giugno 2017
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di Achille C. Varzi
Filosofo, insegna Logica e Metafisica alla Columbia University di New York.

…… Dico subito che non parlerò di logica, di filosofia della matematica, di ontologia, e men che meno di buchi. Queste sono le cose su cui si consuma la mia quotidianità, e va da sé che per me sono importantissime. Ma naturalmente sono solo alberi di una foresta ben più ampia. Anzi, sono rami di alberi, rametti di alberi giganteschi di una foresta millenaria. E in una giornata come questa forse è giusto che provi per una volta a parlare della foresta, anche a rischio di sforare rispetto alle mie – chiamiamole così – competenze.

Oltre il fatto di vivere

Vorrei farlo partendo da una citazione classica, anzi super-classica: le Epistole di Seneca al giovane amico Lucilio. Più precisamente, la novantesima epistola, che comincia con queste parole: «Il fatto di vivere, Lucilio mio, è un dono degli dèi immortali, il fatto di vivere bene, della filosofia. Dunque, noi dovremmo avere un debito maggiore verso la filosofia che non verso gli dèi, in quanto un’esistenza virtuosa è certamente un beneficio maggiore che l’esistenza». Possono sembrare parole irriverenti ma, ammettiamolo, è proprio su queste parole che prima o poi ogni filosofo si ritrova a riflettere, soprattutto nei momenti di maggior debolezza. E il loro valore non risiede soltanto nell’incoraggiamento che se ne può trarre. Le parole di Seneca sono esemplari soprattutto per il richiamo a quello che, sin dall’antichità, è stato considerato uno dei compiti principali della filosofia: indicare la strada del «vivere bene». Del resto è questo che ancora oggi le chiediamo tutti. Quand’anche fosse vero che tendiamo a preoccuparci più di vivere a lungo che di vivere bene, resta il fatto che, come scriveva Seneca in un’altra epistola all’amico, «tutti possono fare in modo di vivere bene, nessuno di vivere a lungo».

Ora, una delle variabili imprescindibili di qualunque riflessione filosofica su che cosa significhi vivere bene risiede nel fatto che questo bene non può misurarsi esclusivamente su una scala privata. Come diceva Aristotele, siamo «animali politici». Quindi il nostro vivere bene va identificato e calibrato sullo sfondo del nostro vivere accanto ad altri, ed è per questo che ogni considerazione in materia, per quanto emblematica del ruolo della filosofia nel senso più ampio del termine, tende a tradursi subito in considerazioni che riguardano invece un ambito filosofico ben preciso, e cioè l’etica. Beninteso, questo non significa escludere in partenza una concezione del vivere bene di stampo individualista. Pensiamo all’edonismo classico, per il quale il bene si identificava appunto con il piacere del singolo. Aristippo, allievo di Socrate e precursore del carpe diem di Orazio, ne fece uno dei primi esempi di filosofia autenticamente ispirata alla ricerca del vivere bene, posto che la libertà di un individuo si misura dalla sua capacità di abbandonarsi al piacere senza divenirne schiavo. Anche per Epicuro il piacere era «il principio e il fine» del vivere bene di una persona, benché per lui si trattasse di un piacere catastematico, improntato all’assenza del dolore piuttosto che al godimento dei sensi. Ciò non toglie che, appunto, siamo animali politici, e per molti filosofi ciò significa che qualunque tentativo di fondare il vivere bene sul piacere individuale è sulla strada sbagliata. Per tornare a Seneca, proprio perché siamo animali «nati per il bene comune», come diceva nel De clementia, il bene comune non può che precedere quello privato; proprio in quanto siamo «generati dalla comunità», come diceva nel De beneficiis, si deve sempre tenere presente il bene della collettività accanto a quello dei singoli individui.

Se accettiamo questo punto di vista, si capisce allora perché il grande tema filosofico del vivere bene tende a trasformarsi in un quesito di carattere etico, dove con «etica» si intende appunto quel settore della filosofia che si occupa dei principi in base ai quali distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Non a caso le lettere a Lucilio vennero raccolte sotto il titolo di Epistole morali. Si capisce però anche che questo quesito etico rinvia immediatamente a questioni di ordine meta-etico, se non addirittura metafisico. Interrogarsi sui principi dell’agire bene richiede infatti che si definiscano le coordinate entro le quali principi diversi possono essere esaminati, e prima ancora i fondamenti del sistema di coordinate entro cui muoversi. Che servano dei principi è pacifico; ma salvo cadere in facili dogmatismi, è evidente che non si può decidere quali siano questi principi senza precisare perché proprio quelli, su che basi vengono scelti, fino a che punto si tratta di una scelta obbligata, e così via. L’etica ha portata normativa, e ogni risposta a queste domande dovrà tradursi in regole di condotta che la società si prenderà carico di far valere (non da ultimo dotandosi di un opportuno ordinamento giuridico); ma se il normativo scadesse nell’assiomatico, o se il concetto di società a cui si fa riferimento fosse espressione del nostro provincialismo e dei nostri pregiudizi, il «vivere bene» che ne deriverebbe avrebbe poco a che fare con quello che, filosoficamente, dovrebbe distinguersi dal semplice «fatto di vivere».

L’idea stessa che noi si sia animali politici ammette coniugazioni diverse a seconda dell’ampiezza con cui si intende l’aggettivo «politico». Aristotele aveva in mente l’appartenenza alla polis, con la sua comunità di individui tenuti assieme da legami familiari, religiosi, economici, ecc. Ma se questa sia la dimensione giusta è di per sé una componente importante del problema. Nel corso della storia il cerchio della comunità di riferimento è andato ampliandosi sempre di più, passando dalla polis alla provincia e poi alla nazione, all’impero, all’etnia, sino alla confederazione internazionale e multietnica. La Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU è forse la testimonianza più significativa di come questo graduale processo di estensione si sia svolto proprio all’insegna della ricerca del vivere bene: «L’Assemblea Generale proclama questa dichiarazione – recita il preambolo – come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni». Non c’è da stupirsi se oggi si parla di una vera e propria «globalizzazione» del bene. Tuttavia il problema resta: qual è la dimensione giusta? Da un lato c’è il rischio che così facendo ci si spinga troppo in là, col risultato di fare violenza a differenze culturali e sociali che pur vanno riconosciute e rispettate per quel che sono. Dall’altro si potrebbe pensare che non ci si stia spingendo abbastanza, come sostengono per esempio gli animalisti, per i quali il cerchio degli individui che possono richiedere rispetto morale supera di gran lunga i limiti della specie umana.

Ma soprattutto – e questo è il punto su cui vorrei concentrarmi – la dimensione etica del vivere bene si intreccia con questioni di natura squisitamente metafisica non appena cominciamo a interrogarci sull’esistenza o meno di vincoli oggettivi al sistema di valori che deve governare la nostra condotta. Ha senso cioè parlare di un bene «in sé» – un bene che risiede nelle cose stesse e che da solo determina il classificarsi dei nostri comportamenti in giusti, neutri, o moralmente inaccettabili – oppure la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male è in qualche modo soggettiva, culturale, estranea ai tratti costitutivi della realtà che ci ospita? In un certo senso la risposta a questo interrogativo condiziona la risposta a tutti gli altri. Possiamo anzi dire che è proprio su questo interrogativo che si è giocata buona parte della storia della filosofia morale, dando luogo a una molteplicità di teorie che si contrappongono, non solo rispetto ai particolari sistemi di valori di cui si fanno promotrici sul piano normativo, ma prima ancora rispetto all’approccio che sottende la giustificazione di quei sistemi. Le teorie che si ispirano a una concezione oggettiva del bene «in sé» muovono da un approccio di stampo realista: certe azioni sono buone e altre cattive, e che siano dell’uno o dell’altro tipo è una loro caratteristica intrinseca. In altri termini, i valori sono quelli che sono e i principi di tali teorie avranno quindi al contempo portata descrittiva e portata prescrittiva. Le teorie che si ispirano invece a una concezione soggettiva muovono da un approccio antirealista, o convenzionalista, in base al quale il bene, i valori, e il fatto stesso che il bene sia un valore sono espressione del nostro modo di rapportarci alle cose del mondo. I loro principi avranno portata normativa, ma la loro stessa giustificazione sarà, almeno in parte, frutto del nostro operare. Qual è l’approccio giusto?

La cerimonia di conferimento del titolo di professore onorario “Bruno Kessler” al filosofo Achille Varzi si è svolta il 24 maggio presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. È intervenuto il professor Fulvio Ferrari, direttore del Dipartimento, la laudatio è stata tenuta dalla professoressa Paola Giacomoni, docente di Storia della Filosofia all’Università di Trento.
I testi della laudatio e della lectio in versione integrale ed un profilo del professor Varzi sono disponibili nel box di download.
L’estratto proposto riprende alcuni temi sviluppati più ampiamente nel libro di Achille Varzi “I colori del bene” (Napoli, Orthotes, 2015).