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Significato del perdono. Religione, antropologia, diritto

a cura di Michele Cozzio e Claudio Tugnoli

1 marzo 2024
Versione stampabile

Vendetta e perdono sono in perfetta antitesi e sarebbero incompatibili se non intervenisse l’istituzione della giustizia, che assomma qualcosa dell’una e dell’altro: la restituzione al reo per simmetria del danno arrecato tipico della vendetta e insieme l’attenzione alla persona e al suo diritto di riscattarsi che caratterizza il perdono come risposta asimmetrica al crimine commesso. Il perdono, che non è mera omissione della vendetta, è necessario alla convivenza civile di persone che rivendicano l’esigenza di liberarsi dal fardello delle colpe accumulate nel corso della loro esistenza. I saggi pubblicati in questo volume mettono a fuoco le diverse prospettive e sensibilità – religiosa, antropologica, giuridica – in cui il perdono è interpretato e vissuto.

Michele Cozzio è docente presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento
Claudio Tugnoli collabora con attività seminariali con il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell'Università di Trento

Dalla Premessa (pagg. 7-10)

Nella letteratura occidentale il tema della vendetta ha avuto grande fortuna. Il lettore trae un piacere impagabile assistendo alla vendetta che il protagonista infligge al responsabile di una grave ingiustizia. Si pensi a Ulisse che uccide i Proci, miserabili profittatori dei suoi averi in sua assenza o a Edmond Dantès, protagonista del famoso romanzo di Alexandre Dumas: grazie all’abate Faria che lo istruisce sul tesoro nascosto nell’isola di Montecristo, riesce a fuggire dal carcere in cui era stato rinchiuso dando credito alla falsa accusa di bonapartismo orchestrata da tre rivali in amore con l’aiuto di un giudice corrotto. Poiché il crimine commesso ai suoi danni è rimasto impunito, Dantès decide di farsi giustizia da sé con una vendetta ben congegnata e implacabile nei confronti di coloro che lo hanno fatto marcire in carcere per 14 anni. Anche nel cinema il tema della vendetta ha avuto una certa fortuna. Si pensi a Il giustiziere della notte (Death Wish), un film del 1974 diretto da Michael Winner, tratto dal romanzo omonimo di Brian Garfield del 1972. In una New York anni Settanta, Paul Kersey (Charles Bronson), ingegnere e obiettore di coscienza, viene scosso e traumatizzato dall’omicidio della moglie e lo stupro della figlia a seguito di una rapina. Il tema è la decisione di farsi giustizia da sé, in un ambiente dove la polizia è quasi impotente contro i criminali. La ritorsione nei confronti di chi ha commesso un crimine procura la sensazione che giustizia è stata fatta, che la resa dei conti c’è stata, che le cose sono tornate a posto.

Il ricorso alla vendetta è istintivo, funziona come un riflesso incondizionato soprattutto se il crimine è stato commesso intenzionalmente. Ma la vendetta può diventare un’escalation e propagare sé stessa infinitamente, perdendo così i connotati di compensazione del crimine di partenza: la catena interminabile delle vendette appare come un fomite di cieca violenza che minaccia l’esistenza stessa della comunità. Di qui la necessità di istituire una corte di giustizia, un Areopago (antico consiglio degli anziani di Atene, che prendeva nome dal luogo in cui si riuniva, la Collina di Ares). Ma il tribunale chiamato a punire il criminale e a risarcire la vittima non basta a soddisfare l’esigenza di giustizia nei confronti di tutti i protagonisti della vicenda criminale. La pena inflitta al reo consistente nella reclusione non è intesa come vendetta, ma come esercizio legittimo di una coercizione che ha una finalità rieducativa, ispirata dalla fiducia che il soggetto, non riducibile alle sue azioni, possa riscattarsi meritando la dignità e il rispetto della società.

Anche gli studi sulle società tradizionali offrono una lettura che dimostra l’attenzione per la risoluzione pacifica dei conflitti e il ripristino delle relazioni. Il riferimento è a società prive di potere centralizzato, composte da poche migliaia di individui, con economia di sussistenza legata a caccia, agricoltura, pastorizia e caratterizzate da un limitato grado di trasformazione dopo il contatto con le società industriali occidentalizzate. Le troviamo, per esempio, in Australia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Alaska, nelle grandi pianure del Nord America, nel centro Africa e nel Sud America. È difficile dire se nei processi di composizione delle liti entri in gioco il perdono, ma i componenti delle tribù conoscono bene il prezzo (disperazione e miseria associata alla guerra, pericolo costante e dolore per la perdita dei propri cari) che comporta l’alternativa della vendetta personale, la quale tende a innescare la spirale della violenza e della guerra. Nonostante l’entusiasmo e il prestigio legati alle lotte tribali, in queste società sono quindi apprezzati soprattutto i benefici garantiti dalla pace. In tal senso, l’elemento chiave per il ripristino di una relazione danneggiata è la considerazione e il rispetto per i sentimenti reciproci, più che stabilire la colpa, la negligenza o la pena. Sovente i processi di pacificazione seguono un rituale che prevede l’intervento di negoziatori, la definizione di una somma compensativa (integrata da beni) un momento cerimoniale nel quale le parti prendono la parola. Tuttavia, l’obiettivo non è mai quello di conseguire il risarcimento o regolare i conti con la consegna di cibo e animali, bensì ristabilire relazioni pacifiche. In altri termini la somma versata e i beni ceduti costituiscono segno di partecipazione al dolore della parte lesa e di scuse per quanto accaduto.

Del resto, se la vendetta è facile, il perdono è difficile; se la vendetta è oggetto di consenso immediato sia nella vittima che nello spettatore, il perdono può essere addirittura aborrito e negato nell’immediatezza del fatto, quasi che il concederlo rappresenti una seconda violenza ai danni della vittima o un’offesa alla sua memoria o addirittura alla norma che è stata violata dall’offesa. Insomma, vendetta e perdono sono in perfetta antitesi e sarebbero incompatibili se non intervenisse l’istituzione della giustizia, che assomma qualcosa dell’una e dell’altro: la restituzione al reo per simmetria del danno arrecato tipico della vendetta e insieme l’attenzione alla persona e al suo diritto di riscattarsi che caratterizza il perdono come risposta asimmetrica al crimine commesso. Il perdono, che non è mera omissione della vendetta, è necessario alla convivenza civile di persone che rivendicano l’esigenza di liberarsi dal fardello delle colpe accumulate nel corso della loro esistenza.

Le riflessioni raccolte in questo volume vengono pubblicate in un momento storico difficile che vede l’intensificazione a livello globale delle tensioni politiche e geo-economiche emerse già con la pandemia del Covid-19, poi gravate dalla guerra in Ucraina e, più recentemente, dall’inasprimento del conflitto arabo-israeliano. Sullo sfondo permane la crisi degli strumenti di cooperazione internazionale e della governance globale multilaterale, crisi che è espressione più in generale della progressiva scomposizione dell’architettura morale, politica e istituzionale costruita dopo la Seconda guerra mondiale. Mai come ora risulta d’aiuto l’esortazione al conseguimento della pace che Papa Giovanni XXIII
pubblicava l’11 aprile del 1963  quando le tensioni tra le superpotenze – tra gli Stati Uniti e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche – mettevano in pericolo la pace, da poco riconquistata, in un secolo dilaniato da due conflitti mondiali e oltraggiato dall’olocausto. Un’esortazione caratterizzata dal tratto dell’atemporalità perché quanto da essa propugnato è e permane aspirazione costante dell’uomo.

Per gentile concessione della Casa editrice Tangram.