Gli autori: Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci

In libreria

CONFESSIONI DI UN TRAFFICANTE DI UOMINI

Andrea Di Nicola, Giampaolo Musumeci

12 settembre 2014
Versione stampabile

“Per scrivere questo libro, che raccoglie le confessioni degli uomini che controllano l’immigrazione clandestina, abbiamo viaggiato nei luoghi principali dei traffici di migranti.”

Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci in “Confessioni di un trafficante di uomini” raccontano “la più grande e la più spietata ‘agenzia di viaggi’ del mondo” attraverso le voci dei protagonisti: testimonianze raccolte dall’Europa dell’Est fino ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo. 
Andrea Di Nicola, professore di Criminologia all’Università di Trento, e Giampaolo Musumeci, fotografo, film-maker, giornalista e conduttore radiofonico, portano il lettore a scoprire “un mondo parallelo che nessuno conosce”. Il libro, che si legge come un romanzo, offre un’analisi lucida e documentata dell’industria dell’immigrazione clandestina “il cui fatturato mondiale è secondo solo a quello della droga”.

Presentiamo qui un breve estratto dal primo capitolo “Questo libro”.

Marina di Turgutreis, distretto di Bodrum, Turchia meridionale. Sono le 9.30 del mattino di un giorno di maggio del 2010. Al numero 26 di Gazi Mustafa Kemal Bulvarı c’è la sede della Argolis Yacht Ltd, una società di gestione e affitto natanti a vela e a motore. Le carte del Bavaria 42 Cruiser – un monoalbero di tredici metri battente bandiera greca ormeggiato al molo poco distante – attendono sulla scrivania.

Un uomo sulla quarantina, il viso abbronzato e un po’ segnato, le braccia forti e la stretta di mano vigorosa, si presenta in agenzia con il passaporto e la patente nautica per concludere il contratto. È uno skipper. Si chiama Giorgi Dvali, di nazionalità georgiana. È nato a Poti e da anni lavora con i turisti sulla costa turca. Organizza crociere nel Mediterraneo. Data la loro lunga tradizione marinara, i georgiani, insieme con gli ucraini, sono velisti assai apprezzati. I porti che affacciano sul Mar Nero hanno cresciuto, nei secoli, esperti navigatori. Dvali riferisce all’impiegata che i suoi prossimi clienti sono una famiglia di americani di Seattle: una coppia con due figli adolescenti che vuole passare un paio di settimane tra le coste turche e le isole greche. Vogliono godersi la mavi yolculuk, la «crociera blu», come la chiamano i pescatori locali. Per un uomo di mare come lui è una rotta usuale di rara bellezza, sicura attrattiva per tanti turisti.

Dvali paga in contanti quanto dovuto per l’affitto e l’assicurazione. Poco dopo è già sul molo e osserva la barca. Al suo fianco, i tradizionali caicchi turchi, costruiti nelle marine di Bodrum e Marmaris, e yacht a vela di quindici-venti metri. Andirivieni di skipper, turisti inglesi e tedeschi, qualche greco: sul molo una babele di lingue diverse. Dvali si guarda intorno, poi ispeziona lo scafo, quindi sale, va sottocoperta e controlla che sia tutto in ordine. Tre cabine attrezzate, sei posti letto in tutto, una capiente cambusa e due bagni. Gli interni sono eleganti, ricchi di boiserie. La barca ha non più di cinque anni; è seminuova. Sul mercato dell’usato costerebbe intorno ai 120-130.000 euro. L’indomani, alle prime luci dell’alba, si salpa.

Dvali decide di impostare fin da subito la rotta sul navigatore Gps per verificarne il funzionamento: 40.1479 gradi di latitudine, 17.972 di longitudine. Yacht come il Bavaria 42, da aprile a settembre, fra la Turchia e le isole greche e poi fino al litorale italiano, tra Corfù e Vieste, tra Creta e la Calabria, tra Adalia e Santa Maria di Leuca, ce ne sono a centinaia. Lunghe crociere, lontane dalle spiagge affollate. Turismo per pochi eletti. Sei giorni dopo, nelle prime ore del mattino, l’imbarcazione è al largo di Porto Selvaggio, provincia di Lecce. Sta navigando a motore e fende le onde a circa sette nodi. La terra è a sole dieci miglia. Il guardacoste della finanza affianca lo scafo: è un controllo ordinario, uno dei tanti. Il libretto di navigazione è in ordine, Dvali sembra un professionista del mare. I finanzieri salgono a bordo. L’uomo a quel punto tradisce nervosismo. Alla richiesta di notizie sulle persone a bordo, Dvali risponde che sta accompagnando una famiglia americana in vacanza nel Mediterraneo. Ora stanno dormendo, non vorrebbe disturbarli. Il suo inglese non è stentato, eppure balbetta. A insospettire le forze dell’ordine è soprattutto il suo sguardo, che corre più volte verso la porta chiusa della cabina. I finanzieri decidono di fare un controllo più approfondito. Sottocoperta non c’è la famiglia americana appassionata di vela. Non c’è la coppia con i figli adolescenti. Quando gli uomini in divisa infilano il naso all’interno, accolti da una zaffata di acido e puzzo di sudore, trovano quaranta uomini afgani dai sedici ai trentadue anni. Tutti della provincia di Herat. I loro sguardi sono smarriti, molti hanno il mal di mare. Sono passati dalla Turchia: prima Istanbul, la centrale di smistamento del traffico di uomini provenienti da mezzo mondo, poi Smirne, da lì fino a Bodrum, dove hanno incontrato Dvali. Mollati gli ormeggi, facile rotta verso l’Italia, ultima destinazione le coste pugliesi.

Giorgi Dvali in realtà non si chiama così. Il suo vero nome è un altro, ma i magistrati che hanno indagato sulla vicenda e che ce la raccontano preferiscono non rivelarlo. È uno scafista. Astuto e capace, utilizza l’ultimo stratagemma per superare le barriere del Vecchio continente aggirando la polizia internazionale che contrasta l’immigrazione clandestina. Il suo è l’ultimo, formidabile chiavistello per violare la «fortezza europea». Un trucco recente, che ha preso piede non solo nel Mediterraneo ma anche nel Canale della Manica. Gli yacht di lusso, a vela e a motore, non attirano l’attenzione delle forze dell’ordine. I migranti possono essere nascosti sottocoperta, invisibili dall’alto quando un aereo o un elicottero sorvola i mari. L’unico segnale esterno, il tallone di Achille, è il notevole abbassamento della linea di galleggiamento di barche che, nate per portare al massimo dieci persone, arrivano a contenerne quattro o cinque volte di più.

A volte acquistati, altre volte rubati, altre volte ancora, come nel caso di Dvali, affittati «a scoppio», cioè con documenti falsi e false identità per ottenere la disponibilità di una barca che non sarà mai restituita, come spiegano alcuni pubblici ministeri che da tempo indagano sul fenomeno.

Una traversata così costa al giovane afgano o pachistano dai 1000 ai 4000 euro. Si parte da Adalia, Smirne, Tekirdaǧ; si viaggia attorno agli otto nodi, circa quindici chilometri orari. Il viaggio verso l’Italia dura dai cinque ai sette giorni: si impiega di meno con i motoryacht, che attraversano il Mediterraneo con velocità di crociera attorno ai venticinque nodi. Resta l’alternativa dei gommoni superveloci che partono dalla Grecia (Leucade, Corfù, Gomenizza) e non più dall’Albania dove i controlli sono diventati più severi. Sfrecciano a oltre sessanta-settanta nodi, la traversata dura al massimo cinque ore, ma è più facile che la guardia costiera li intercetti.

La sorte, quel giorno di maggio, non ha sorriso al nostro capitano. La roulette dei controlli ha beccato proprio il suo Bavaria 42 e lui è finito in carcere. Si farà quattro anni per favoreggiamento di immigrazione clandestina mentre il Bavaria 42, insieme ad altre decine di yacht, è sotto sequestro al porto di Lecce.

Cataldo Motta, capo della Procura della Repubblica di Lecce, e Guglielmo Cataldi, suo sostituto, sono magistrati antimafia. Negli ultimi vent’anni hanno combattuto la Sacra corona unita, hanno contrastato i traffici di sigarette e di droga, e poi quelli di uomini e di donne, prima a opera della mafia albanese, oggi di trafficanti turchi, afgani, pachistani, iraniani e greci. Sono loro che si occupano del caso del Bavaria 42, così come dell’operazione investigativa «Ropax» del 2011, coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e condotta dalle distrettuali di Bologna e Lecce, che ha portato a disarticolare un grande network criminale, con vertici operativi in Grecia e in Turchia, che trafficava afgani, pachistani e iraniani. Due le rotte. Una dall’Egitto, dove i migranti erano convogliati e fatti salpare verso la Sicilia. L’altra dalla Turchia, passando in qualche caso per la Grecia, o direttamente verso l’Italia. Il caso Bavaria 42 e l’operazione «Ropax» aprono uno squarcio sull’abilità, la flessibilità, lo spirito imprenditoriale di questi signori del crimine, sempre pronti a reagire alle mosse e contromosse delle forze dell’ordine e a studiare nuovi modi per entrare in Europa.

Per gentile concessione di Chiarelettere editore srl