Variazioni su disegno di Grandville, dalla locandina Convegno "Animali Parlanti." (2016).

In libreria

ANIMALI PARLANTI. LETTERATURA, TEATRO, CANZONI

a cura di Caterina Mordeglia

22 gennaio 2018
Versione stampabile

Dalla quarta di copertina. 
Il rapporto tra uomo e animale è cruciale per tutte le culture. Il mondo antico ha attuato un’identificazione, per antitesi o similarità, della figura umana con quella animale, attraverso una polisemica rete di simboli e allegorie. Richiamandosi all’uguaglianza creaturale propria della concezione biblica, il Medioevo tenderà a cristallizzare un immaginario collettivo simbolico legato al mondo animale destinato a perdurare fino al mondo moderno. [...] Partendo dall’Antichità classica si giunge, attraverso il Medioevo latino e il Rinascimento, alla letteratura fiabesca e romanzesca europea tra Sei e Novecento, al melodramma e alla canzone italiana e straniera, in un dialogo ininterrotto con topi, lupi, uccelli e altri animali “parlanti”.

Caterina Mordeglia è professoressa del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. 

Dall'Introduzione (pp. XIII - XVI)

Questo volume raccoglie, insieme ad altri inediti, i contributi presentati in occasione del convegno internazionale «Animali parlanti. Letteratura, teatro, canzone» svoltosi il 5 e 6 aprile 2016 presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, che ha visto la partecipazione di personaggi del mondo accademico, della cultura, del teatro e della canzone.
   Ispiratore delle due giornate – e dunque anche dei diversi saggi che compongono il volume, attraverso cui si potrebbe tracciare una delle cento possibili «Storie di animali visti dall’uomo» – il rapporto cruciale e variegato tra uomo e animale che si è sviluppato attraverso i secoli nelle più diverse manifestazioni storico-culturali e letterarie, da cui il carattere marcatamente interdisciplinare delle due iniziative, convegnistica ed editoriale.
   Il percorso di indagine trae origine necessariamente dalla riflessione filosofica che il mondo classico riserva a questa tematica, a partire dalle teorizzazioni aristoteliche di stampo soprattutto socio-politico per passare poi allo stoicismo romano, senecano e non solo, fino ad arrivare alla logica utilitaristica di Machiavelli, in un dualismo continuo tra animalità e umanità, tra naturalità e raziocinio, onnipresente nel tempo se pur variamente declinato e deformato nei suoi contorni attraverso la lettura simbolica che la finalità morale, spesso finemente associata a quella estetica, comporta.
   Già nell’antichità la costruzione letteraria di alcune opere si basa su un immaginario animale più o meno realistico, più o meno evocativo, fondamentale per esempio nella favola di Esopo e Fedro, raggiungendo spesso vertici di poesia – e per il mondo latino il pensiero corre veloce al Virgilio georgico o all’Ovidio delle "Metamorfosi". È però attraverso la concezione biblica e cristiana che la trama di simboli e allegorie animali si infittisce, riducendo progressivamente l’elemento di naturalità nella definizione del carattere e cristallizzandosi in una galleria di rappresentazioni destinata a durare fino al mondo moderno nei più svariati ambiti, con immutabile fortuna soprattutto in quegli ambienti caratterizzati da maggiore conservatorismo come per esempio la corte papale. Fondamentali in questa ridefinizione del rapporto uomo-animale saranno in particolare i testi di alcuni Padri della Chiesa ed enciclopedisti medievali, Ambrogio e Isidoro di Siviglia in primis rispettivamente con l’"Exameron" (omelie per il VI giorno della Creazione) e gli "Etymologiarum libri" (XII libro), ma anche il "De consolatione philosophiae boeziano" (IV 3), dove l’identificazione tra uomo e animale si verifica esclusivamente in caso di allontanamento dell’uomo dalla virtù.
   Dunque ancora una volta attraverso l’esperienza della codificazione, testuale e simbolica, realizzatasi nel Medioevo, così magistralmente descritta quasi settant’anni fa da Ernst Robert Curtius nel suo "Europäische Literatur und lateinische Mittealter" (Bern 1948), smussata la componente moralistica cristiana e ormai proiettati verso una sensibilità «moderna», si rendono possibili esperienze di identificazione uomo-animale o animale-uomo come quelle rappresentate nello shakespeariano "Sogno di una notte di mezza estate" dall’asino Bottom, in cui, come accadrà in seguito per il lupo protagonista de "Le Petit Chaperon rouge" di Perrault, si incarnano le pulsioni umane più profonde, o nel racconto di Maupassant "Fou?", dove il cavallo diventa antagonista dell’innamorato nel possesso della donna amata.
   Il travestimento animale consente la satira politica, che sulla scia della favola esopico-fedriana tanta fortuna ebbe nel Settecento, italiano e non solo; domina il panorama iconografico di tutti i tempi, dove antropomorfismo e teriomorfismo si alternano liberamente nelle funzioni magico-sacrali e artistico-decorative dell’immagine, varianti alla rappresentazione scientifico-documentale che occupa larga parte dei cataloghi zoologici che si alternano lungo i secoli; diventa specchio dei sentimenti umani nella musica e nella canzone, straniera e italiana, blues e pop.
   Topi, cani, balene, lupi, pappagalli, usignoli, tutti gli animali che popolano le pagine di questo volume – e le rappresentazioni letterarie e culturali di tutti i tempi e di tutti gli ambiti a cui esse danno voce – costituiscono attraverso il loro immaginario simbolico gli elementi di quel sentimento cosmico che lega l’uomo alla natura e lo rende partecipe del disegno della creazione divina. Ma al tempo stesso possono dar corpo alle sue angosce esistenziali e rappresentarne il lato più oscuro.
   Così, per citare un esempio sorprendente e contemporaneo di scrittore con una spiccata sensibilità «animalista», ne "Il volo della martora" Mauro Corona, che Claudio Magris nella sua prefazione alla prima edizione del libro (Torino 1997) definisce «scarno e asciutto, e insieme magico nell’essenzialità con cui narra storie fiabesche e insieme di brusca, elementare realtà» (p. 10) e che «ha anche nella vita questa epicità, questo sentimento di una fraternità che abbraccia pure gli animali, le piante, – il suo legno vivo e doloroso – e le cose e che pervade quella che Saba chiamava la calda vita» (p. 9), contrastando l’opinione sull’inafferrabilità delle melodie degli uccelli, che spesso si tramuta in inquietudine e ostilità, descrive il canto del cuculo come un richiamo proustiano a una innocente e fanciullesca serenità in armonia con le forze del creato:

Il cuculo è un vero amico. Uno che arriva sempre al momento giusto. Uno che con la sua malinconia ti tira fuori dalla tua malinconia. Tutto il creato è in simbiosi con lui nel semplice grande fine di darci una mano. Purtroppo va perdendosi sempre di più l’antica istintiva capacità di percepire i colori della terra, e farne medicina. Basterebbe un geranio sul davanzale di casa, per sentire il canto del cuculo anche in città. Ma occorre fermarsi ed ascoltare, magari solo pochi minuti al giorno. Può capitare che all’improvviso si ritorni indietro, come al tempo in cui eravamo bambini e tutto ci sembrava bello. È il canto del cuore che risponde al richiamo del cuculo. È il segnale che qualcosa è andato giù, in quel luogo remoto dell’anima. Le voci di primavera sono il diluente che impedisce alle scorie dei fallimenti, delle delusioni, del pessimismo di occludere il minuscolo passaggio verso quel magico luogo, verso quella terra lontana e ancora pulita, sempre così difficile da raggiungere, da dove trovano rifugio i sentimenti buoni quando noi li rincorriamo per ucciderli. Una di queste voci è il canto del cuculo (p. 62).

   In un altro passo, però, narrando dei lunghi ed estenuanti appostamenti invernali per cacciare la volpe insieme al padre quando era bambino, Corona prorompe in una fantasia onirica che lo induce a umanizzare l’astuto animaletto:

«La volpe cessava di essere l’umile e discreta bestiola che di fatto è, per diventare un’astuta, cinica e imprendibile nemica. Più collezionavamo giorni infruttuosi e sconfitte brucianti, più la bestia assumeva contorni misteriosi e lontani e, come in un sogno fantastico, cominciava a prendere forma umana. Si accumulava allora prepotente in me la
voglia di vederla stesa, di poterle mettere le mani addosso, di sentire finalmente l’abilità di mio padre derisa continuamente, giorno dopo giorno. “Le volpi sono come le donne”, diceva cinico il vecchio [il nonno], che allora non era tanto vecchio ma a me pareva esserlo, “ma prima o poi ci cascano”» (p. 74).

   A distanza di più di duemila anni il cerchio pertanto si chiude. La sensibilità moderna di Corona ripropone il binomio uomo-animale nella sua duplice declinazione di identità-alterità, che passa attraverso la personificazione fisica e morale della bestia, proprio come avveniva nella favola esopica e in altre manifestazioni letterarie antiche.

Per gentile concessione di SISMEL. Edizioni del Galluzzo