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PICCOLI EQUIVOCI TRA NOI ANIMALI. Siamo sicuri di capirci con le altre specie?

di Lisa Vozza e Giorgio Vallortigara

20 marzo 2016
Versione stampabile

Il koala abbracciato all’albero è un tenero pigrone? Sembra piuttosto un animale incapace di sudare, che nel fresco contatto con il tronco trova refrigerio dai 40 °C all’ombra. E il delfino sorride? No, la sua espressione è immutabile, perché non ha i muscoli facciali con cui noi esseri umani esprimiamo le emozioni. Le nostre impressioni sulle altre specie ci traggono facilmente in inganno. Osservando gli altri animali diamo per scontato che abbiano esperienze, percezioni, emozioni, pensieri come i nostri. A volte l’intuito e l’eco di un’evoluzione condivisa ci portano nella giusta direzione. Spesso però non ci azzecchiamo e le nostre intuizioni non corrispondono a quello che scoprono gli etologi e i neuroscienziati che studiano il comportamento animale. I frequenti piccoli equivoci in cui cadiamo sono indizi utili per scoprire i meccanismi che la nostra mente usa per dare un senso a ciò che ci circonda. Studiando gli animali, possiamo conoscere meglio loro e anche noi stessi.

Lisa Vozza è biologa e scrittrice, è Chief Scientific Officer dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC). Fra i suoi libri: Nella mente degli altri con Giacomo Rizzolatti (2007), I vaccini dell’era globale (2009; Premio letterario Galileo 2010), Come nascono le medicine, con Maurizio D’Incalci (2014).
Giorgio Vallortigara, neuroetologo, è professore di Neuroscienze all’Università di T rento, dove dirige il Laboratorio di Cognizione animale e Neuroscienze nel Centro interdipartimentale Mente-Cervello (CIMeC). Ha scritto più di 200 articoli su riviste scientifiche internazionali e svolge un’intensa attività di divulgazione su varie testate giornalistiche. Fra i suoi libri più noti, Cervello di gallina (Bollati Boringhieri 2005, Premio Pace per la divulgazione scientifica 2006), Nati per credere (Codice edizioni 2008) con Vittorio Girotto e Telmo Pievani, La mente che scodinzola (Mondadori Università, 2011) e Cervelli che contano, insieme a Nicla Pancera (Adelphi 2014).

Capitolo 1

Illusioni e percezioni
«Walter non aveva mai amato i gatti». Solo, in una casa vicino a un lago del Minnesota, passava un’estate intera a registrare la fine crudele di ogni uccellino fra le grinfie di qualche micio dei vicini. La passione di Walter per i volatili era tale, che i gatti per lui non potevano essere altro che «i sociopatici del regno animale», dei killer il cui pelo, perdonati denti e artigli, viene accarezzato e onorato «come le uniformi degli assassini» di tanti Paesi infelici. «Nel muso di un gatto non aveva mai visto altro che affettata indifferenza ed egoismo».
Se l’invenzione letteraria di Jonathan Franzen è a un estremo cupo delle azioni e dei sentimenti umani per gli animali, la realtà è piena di altri Walter meno folli, che riservano paternali ben più bonarie ai loro evolufelpati predatori di uccellini. «Giulio, sei proprio tremendo! Che cosa ti ha fatto di male quel povero passerotto indifeso? Adesso fili in castigo senza cena… ». Ammesso che i felini percepiscano quanto meno le emozioni veicolate dalle ramanzine, tono e parole hanno più a che fare con i comportamenti umani: i gatti sono tremendi e vanno in castigo se va bene, sono sociopatici e assassini se va male, e gli si perdonano denti e artigli, mentre i passerotti sono indifesi. Attribuire caratteri, azioni e intenzioni umane a qualunque cosa ci passi davanti al naso è un’attività incontrollabile e universale del nostro cervello, che gli scienziati chiamano antropomorfismo. La vita quotidiana ne offre esempi incessanti e innumerevoli, non soltanto in relazione agli animali. Se dopo avere evitato un incidente con un’automobile pirata lascio la mia fida bicicletta in stazione per prendere un treno che nasce a Torino e muore a Trieste, ecco che ho già attribuito a sproposito quattro qualità più umane che materiali in un’insulsa frasetta di tre righe. Accorgersi degli esempi di antropomorfismo è facile, a patto che ci facciamo «crescere nella pancia una piccola macchina per lo stupore», come dice lo scrittore Paolo Nori. Una macchina che blocchi per un momento i nostri automatismi cerebrali e ci faccia vedere le etichette umanoidi che appiccichiamo a ogni cosa senza fare attenzione. Qual è l’utilità di questa etichettatrice irrefrenabile di caratteri di cui ci ha dotati l’evoluzione? Di preciso non si sa, ma è possibile che si tratti di un effetto collaterale delle nostre abilità sociali. Gli in dividui più capaci di intuire e anticipare le azioni, le intenzioni, le emozioni degli altri sono forse stati premiati dalla selezione naturale con sopravvivenze più lunghe e maggior prole, per aver saputo cogliere le volontà amichevoli o pericolose degli altri esseri umani, gli istinti dei predatori, i punti deboli delle prede. Ma perché peschiamo quelle qualità soprattutto nella nostra esperienza umana? Forse perché è l’unico repertorio che conosciamo davvero, un inventario di caratteristiche che, seppure con qualche limite, ci offre qualche rozzo strumento per descrivere il largo e curioso mondo che ci circonda. O forse peschiamo da lì perché il repertorio ci pare “di proprietà” di noi esseri umani, ma è in realtà condiviso almeno parzialmente con le altre specie con cui abbiamo percorso un pezzo del cammino evolutivo. Ammesso che le cose stiano in questo modo, può essere che quel repertorio descriva almeno una parte di ciò che può accadere negli animali? Può darsi. L’importante è mantenersi vigili e non dare per scontato che ogni impressione, sentore, intuito sugli altri animali sia per forza corretto. La corrispondenza delle nostre impressioni al vero va provata. Il babbuino ha sonno?

A volte con l’antropomorfismo ci si azzecca. Dopo tutto con parecchi animali, e in particolare con i mammiferi, abbiamo condiviso un bel po’ di evoluzione, tanto che i geni, le proteine, le cellule e perfino gli organi di cui siamo fatti si somigliano parecchio. Spesso però andiamo proprio fuori strada. Il cane, per esempio, ha lo sguardo mesto perché ha combinato qualcosa di male e lo sa? No, si tratta di una risposta al rimprovero del padrone, e non all’azione “sbagliata”, come ha dimostrato Alexandra Horowitz, una neuroetologa del Barnard College di New York, in un esperimento che ha coinvolto alcuni cani e i loro proprietari. Nell’esperimento i proprietari avevano istruito i loro quattrozampe a non mangiare un biscotto in loro assenza. Se il biscotto era sparito, i cani venivano sgridati dai proprietari sia che avessero obbedito, sia che il biscotto fosse stato rimosso da uno sperimentatore all’insaputa dei padroni. In entrambi i casi i cani, “colpevoli” o “innocenti” che fossero, mostravano uno sguardo triste che secondo i padroni era un’ammissione di colpa. Più verosimilmente si era trattato di una risposta alle emozioni umane: i cani avevano visto l’espressione del viso, o sentito il tono di rimprovero della voce del proprietario, e avevano reagito di conseguenza. Siamo capaci di altre interpretazioni strampalate. Il babbuino sbadiglia dal sonno? No, se si tratta del maschio alfa, dominante, che sta mostrando denti e gengive agli altri maschi del gruppo come segnale di aggressività. Il delfino sorride? No, l’espressione del delfino è fissa, dato che mancano i muscoli facciali con cui noi esseri umani possiamo veicolare quasi ogni emozione.

I muscoli delle facce
Siamo abituati a leggere un’incredibile varietà di sfumature su quel paesaggio in movimento che è la faccia umana. Lì, sotto la pelle, una ventina di muscoli ci aiuta a mettere in mostra lo stato d’animo più piccolo, futile, stolido, offrendolo in pasto ai nostri simili senza che ce ne accorgiamo («Ti si legge proprio tutto in faccia!»). Assuefatti alle nostre espressioni debordanti e incontenibili, notiamo ogni emozione apparente anche sulle facce degli altri animali. Pensiamo che possano come noi esprimere di tutto, ma non è affatto detto che un cane che corruga la fronte voglia dirci che è preoccupato, o che un elefante che spiana le rughe sia infine sereno. Sotto la loro pelle di solito non c’è quella ventina di muscoli umani, collegati ai centri nervosi delle emozioni. Un fatto che non abbiamo sempre presente quando il cocker ci appare malinconico per via degli occhi e delle orecchie in giù e il bulldog ci sembra aggressivo a causa del muso rincagnato. Insomma, siamo “macchine” un po’ egocentriche che vedono similitudini con la minuscola esperienza cui siamo abituati, anche dove le similitudini proprio non ci sono. Il problema è che prendiamo un po’ troppo alla lettera le nostre esperienze e le nostre percezioni, dando per scontato che le altre creature ne abbiano di uguali. L’importante è perdere il vizio, per così dire, soprattutto quando incontriamo spiegazioni più semplici. E quali sono le spiegazioni da preferire? Quelle più semplici, che si possono individuare seguendo il metodo del rasoio di Occam, al cuore del pensiero scientifico moderno. Tale metodo, espresso nel XIV secolo da un filosofo e frate francescano inglese, Guglielmo di Occam, stabilisce che per spiegare un dato fenomeno è inutile formulare più ipotesi di quelle strettamente necessarie, soprattutto quando quelle iniziali sono sufficienti. E il rasoio che cosa c’entra? C’entra con i metaforici tagli di lama con cui far fuori le ipotesi superflue. Torniamo ora agli equivoci fra noi e gli altri animali. In questo capitolo vedremo qualche altro esempio delle trappole cognitive in cui cade il nostro cervello quando pensa a un animale, lo guarda, ci interagisce.

Per gentile concessione di Zanichelli editore.