Da sinistra: Niccolò Pieri e Giacomo Caterini intervistano Joseph E. Stiglitz. Foto di Nives Della Valle

Internazionale

CONVERSAZIONE CON IL NOBEL PER L'ECONOMIA JOSEPH E. STIGLITZ

A Trento per la Summer School on “Macroeconomic Coordination and Externalities”

10 luglio 2016
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di Giacomo Caterini e Niccolò Pieri
Rispettivamente dottorando in Economics and Management e dottorando in Development Economics and Local Systems presso l’Università di Trento

In occasione della 17^ Trento Summer School on “Macroeconomic Coordination and Externalities” organizzata dal CEEL (Cognitive and Experimental Economics Laboratory) dell’Università di Trento in collaborazione con The Institute for New Economic Thinking e con il supporto finanziario dalla John S. Latsis Public Benefit Foundationabbiamo avuto la possibilità di trascorrere cinque giorni a stretto contatto con il professor Joseph E. Stiglitz (Columbia University), Nobel Memorial Prize per l'Economia nel 2001 e direttore della Summer School. In questo periodo il professore si è rivelato, oltre che un gigante dell'economia, una persona affabile e perfettamente a suo agio fra gli studenti, che a stento nascondevano l’entusiasmo e con i quali si è lungamente intrattenuto in un clima informale e stimolante. Ad ulteriore conferma di ciò, il professor Stiglitz ha avuto la cortesia di concederci una lunga intervista nella quale, con nostra sorpresa, non si è sottratto ad alcun argomento. 

[Nel box di download è disponibile in formato PDF un articolo di approfondimento sulla Summer School. Le foto pubblicate sono di Nives Della Valle, dottoranda in Economics and Management presso l’Università di Trento ndr].

Professor Stiglitz, per lei non è la prima volta a Trento, venne già qui per il Festival dell'Economia: ha un legame particolare con l'Italia e con la città?
Vengo sempre molto volentieri in Italia, sono stato spesso anche a Roma, Siena e Firenze. Questo è il mio primo coinvolgimento nella Summer School, che reputo eccellente, in quanto non sempre eventi di questo genere sono pensati così bene: a volte si impartiscono una serie di nozioni frammentarie, si toccano diversi temi ma nessuno viene discusso in maniera dettagliata. Qui invece ogni anno si sceglie un singolo argomento e lo si analizza a fondo per due settimane, dando agli studenti una visione ampia ed approfondita. È una maniera ottima di organizzare un evento del genere, sia per gli studenti che per gli insegnanti.

Come è nata la collaborazione fra il CEEL ed il suo gruppo di ricerca, The Institute for New Economic Thinking (INET)?
È nato tutto per la creazione di un clima di serendipità: Martin Guzman, il co-direttore, conobbe Axel Leijonhufvud, il fondatore della scuola che agisce da “father figure”, in occasione della stessa Summer School proprio qui a Trento, e fu un suo giovane allievo. Martin ha lavorato con me negli scorsi anni come post doc presso INET, che ha tra i suoi obiettivi la promozione di nuovi talenti tra i giovani.

In questi giorni lei si è soffermato sul ruolo che la flessibilità ha avuto nella recente crisi finanziaria. Nel pensiero classico prezzi e salari sono flessibili e l’economia raggiunge l'equilibrio, secondo lei invece la flessibilità ha accentuato la contrazione dei consumi, impoverito le famiglie ed accresciuto il valore reale del debito. In Italia però da anni ci viene detto che abbiamo bisogno di maggiore flessibilità per attrarre investimenti, e recentemente è stata varata una riforma volta ad incrementarla con nuovi contratti di lavoro.
Molto di quello che si sente dire dai politici o dalle persone come Trichet [Jean-Claude T., ex presidente della Banca centrale europea ndr] è basato sulla semplificazione di modelli economici che sappiamo essere sbagliati, in quanto frutto dell'ideologia e che portano a conclusioni decisamente errate. In alcuni Paesi le rigidità sono un problema e bisognerebbe investigare con cura il contesto istituzionale dell'economia in questione. Però l'idea che la disoccupazione sia dovuta alle rigidità è profondamente sbagliata. La mia impressione è questa: molti Paesi UE prima del 2008 crescevano e l'assetto legislativo non ha rappresentato un impedimento alla crescita finché c'è stata domanda aggregata. Ora, pensare che tutto dipenda dalla regolamentazione mi pare insensato: le imprese non assumono per l'assenza di domanda, non per la presenza di rigidità contrattuali. In Italia, anche prima della crisi, avevate un'ampia gamma di contratti ed un certo margine di flessibilità. Non ho mai trovato evidenze convincenti che la ridotta gamma di contratti fosse un impedimento alle assunzioni. Abbiamo evidenza certa del fatto che le imprese debbano fronteggiare una contrazione della domanda aggregata. In presenza di una domanda aggregata maggiore, le persone hanno maggiori risorse per intraprendere trasformazioni strutturali e maggiore volontà di portarle avanti.

Sta pensando ad incentivi keynesiani dal lato della domanda, un'economia demand driven?
Sicuramente. Senza domanda aggregata non ci sono a disposizione risorse per le trasformazioni strutturali e l'occupazione non aumenta.

A suo avviso è possibile che l'economia possa avvicinarsi nel tempo a quella descritta dai modelli neoclassici attraverso lo sviluppo tecnologico e la maggior mobilità del capitale, con innovazioni in grado di sostituire in misura maggiore il capitale umano, incentivando la mobilità dei lavoratori come si sta provando a fare in Europa e agevolando la circolazione delle informazioni attraverso il boom di internet?
Questo può essere vero in alcuni casi. Non dobbiamo però focalizzarci troppo nello studio dei singoli settori. Piuttosto dovremmo condurre un'analisi attraverso di essi. Esistono ancora e ci saranno per molto tempo medici, infermieri, insegnanti. I settori in cui questa convergenza può verificarsi hanno un'importanza limitata rispetto al totale dell'economia, come l’industria manifatturiera, che negli Stati Uniti rappresenta il 10% del Pil (prodotto interno lordo). Ma il processo di sostituzione del capitale-lavoro dura da 200 anni e non è possibile prevedere esattamente ciò che accadrà. Inoltre credo che non dovremmo confidare troppo in internet: non conosceremo mai le preferenze esatte degli individui, né la loro produttività, non sapremo mai quante ore al giorno vogliono lavorare e continueremo a dare importanza alle interazioni personali. Queste sono asimmetrie informative che non possiamo rimuovere del tutto, in quanto nessuno è il perfetto sostituto dell’altro. Internet può aiutarci solo in qualche misura, o in ambiti limitati ma non può aiutarci a cogliere alcuni aspetti. Se poi avessimo veramente fattori produttivi ed output omogenei ed i prezzi incorporassero e convogliassero le informazioni allora i search model sarebbero inutili: ma non è così. Esiste un problema di eterogeneità

L’amministrazione Obama sta volgendo al termine e le elezioni di novembre saranno un duello tra Hillary Clinton e Donald Trump. Cosa pensa di una possibile amministrazione Trump?
Credo che le probabilità che Trump diventi presidente siano molto basse. Non credo che l'America voglia sottoporsi a questa roulette russa. 

Ci sono delle similarità con Berlusconi?
Non conosco Berlusconi ma ce ne sono alcune legate soprattutto ai comportamenti oltre le righe e al di sopra delle regole. Questo è incredibile per chiunque confidi nello stato di diritto. A quel tempo noi non capivamo il fenomeno Berlusconi esattamente come voi oggi non capite il fenomeno Trump. Non conosco però il fenomeno Berlusconi e non posso commentarlo, ma ho meno difficoltà ad interpretare quello che sta succedendo con Trump: una parte importante della popolazione americana ha visto il suo reddito rimanere stagnante per anni. La conseguenza è la mancanza di fiducia nelle istituzioni che non hanno fatto niente per loro, sfiducia in un sistema profondamente ingiusto. Le persone sono molto arrabbiate e questo porta ad un clima di protesta. 

Sembra dire che Obama non ha fatto un buon lavoro.
All’interno di questo gruppo di persone c’è la percezione profonda che Obama abbia salvato le banche ma non i posti di lavoro, i banchieri ma non i lavoratori.

Gli Stati Uniti sono un grande Paese avanzato, le persone conoscono l'economia. I cittadini non pensano che salvando le banche si salvino anche le famiglie?
Questo non è successo e la vera risposta per loro è “Obama ha fallito”. Queste persone hanno perso il lavoro, hanno perso la casa. Obama dice di aver prevenuto la grande depressione ma queste persone dicono “Io ho vissuto e sto vivendo in recessione”. Ha salvato i banchieri mentre le famiglie stanno peggio. I tassi di suicidio, di alcolismo, abuso di droghe sono aumentati: questi sono problemi che affliggono una società e sono segni di un profondo dramma sociale. Abbiamo dati che ci dicono che la nostra economia sta andando bene per molte persone, ma abbiamo anche dati sociali che descrivono un grande disagio. Sappiamo che questo disagio ha delle conseguenze politiche. Io non ne sono sorpreso. Ci sono delle politiche che Obama avrebbe dovuto perseguire per salvare le banche ma non i banchieri, per salvare i proprietari delle case, le famiglie ed i lavoratori. Io capisco la giusta rabbia della gente, ma non credo che né Trump né il Tea Party siano la soluzione.

La soluzione può essere Hillary Clinton?
Sì. Il fatto è che hanno capito che un sistema fallimentare non può più andare oltre: le fasce più basse della popolazione percepiscono lo stesso reddito di sessant'anni fa e più basso di quello di quarant’anni fa, ma finora sono stati affrontati i problemi sbagliati. Io credo che queste persone si siano rese coscienti del fatto che il sistema non ha funzionato per loro, ma la loro analisi è sbagliata. Per esempio uno dei problemi maggiori è che abbiamo ancora un sistema d'istruzione molto deficitario che non coinvolge l’intera popolazione. 

Cosa pensa di Obamacare?
È un tentativo di risolvere solo una parte del problema. La realtà è che negli USA ci sono zone in cui è difficile reperire frutta e verdura fresche, i cosiddetti deserti del cibo: questo vuol dire che il nostro sistema non funziona ed è squilibrato. Non c’è domanda di cibo perché non c’è offerta in grandi porzioni della Nazione. È la descrizione di una società che non funziona molto bene.

Tornando in Europa, quest’oggi [23 giugno, ndr] i cittadini britannici stanno votando per il referendum sulla Brexit. Qual è la sua opinione sull’eventualità di un’Europa senza Regno Unito?
Un'Europa senza Regno Unito è un'Europa più debole, con ripercussioni politiche molto serie. Come economista, il problema più immediato è il fallimento della Zona Euro, non dell’Europa. Le politiche europee hanno forzato l’austerità, fallendo nell’analisi delle ragioni per cui l’Eurozona ha avuto performance disastrose negli ultimi 8 anni. Se guardiamo anche alle performance generali sin dall’inizio, l’Eurozona è stata un disastro.

Come è stato possibile commettere così tanti errori durante la crisi? Come è possibile che soggetti ai vertici di ruoli chiave sottovalutino le ripercussioni negative dell'austerity, magari sottostimando qualche moltiplicatore?
È davvero una buona domanda. Raramente i ministri dell'economia sono economisti. L'austerity è un chiaro esempio del ruolo giocato dall'ideologia nelle scelte dei policy maker. I ministri dell’economia sono nella maggior parte politici che non capiscono l’economia ma ripetono una storia che hanno sentito. Hanno un’agenda politica ideologica che molto spesso prevede la riduzione del ruolo dello Stato ed austerità, senza guardare a quelle che potrebbero essere le migliori scelte economiche. Questo è comunque una parte del problema.

A proposito di economisti in politica, applica questo giudizio anche sul governo Monti?
Mario Monti ha fatto un fantastico lavoro in Commissione europea per quanto concerne la concorrenza: quella è microeconomia. C’è un detto che recita che se tu sei un fabbro, cerchi di risolvere tutti i tuoi problemi con un martello. È quindi naturale che lui abbia pensato a leggi sulla concorrenza per migliorare la situazione economica in Italia. Ma il problema che affligge l’Europa è di natura macroeconomica. Ci sono problemi macroeconomici che coinvolgono tutta la zona Euro e l'Italia non può risolverli da sola. Afferiscono alla struttura dell'Eurozona. La Germania ha un ruolo chiave e non sembra interessata ad affrontare questi problemi. Questo vi ha messo in una situazione impossibile.

È un dilemma del prigioniero in cui ogni Paese persegue egoisticamente il proprio interesse?
In realtà i veri prigionieri sono i cittadini europei.

Concludiamo con l'attualità: un commento sul problema delle armi negli Stati Uniti?
È una situazione totalmente folle. Come si può permettere ad individui noti alle autorità come pericolosi terroristi di possedere armi ed uccidere decine o centinaia di persone? Tutti gli americani risponderebbero esattamente nello stesso modo, ma non è stato possibile in 35 anni far approvare una legge. Pensate che il primo a farsi portatore di questo problema fu Reagan, dopo il suo attentato.

I discorsi di Obama sono inascoltati da anni...
Dicono che il problema sia la costituzione: a mio avviso la costituzione non c'entra affatto. 

C'entrano le lobby?
Certamente. È un altro sintomo della malattia sociale che ci affligge, un altro fallimento del nostro sistema.