Emanuela Del Re durante una missione in Ciad

Internazionale

Sahel, frontiera dell'Europa

Dialogo a Trento con Emanuela Del Re sulle politiche di cooperazione allo sviluppo e la gestione delle migrazioni

28 marzo 2024
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di Linda Varanzano
Studentessa collaboratrice Ufficio stampa e relazioni esterne

Il Sahel comprende Burkina-Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. È attraversato da crisi geopolitiche e alimentari, terrorismo e pastoralismo. Poi, ci sono questioni legate ai problemi migratori, alla criminalità, al cambiamento climatico, alla condizione difficile dei giovani o delle donne. Ciò che accade in questa regione d’Africa si riverbera su altri paesi a cominciare da Maghreb, Golfo di Guinea ed Etiopia fino a raggiungere il Mediterraneo. Emanuela Del Re, rappresentante speciale dell’Unione europea per il Sahel, a Trento ha aiutato a comprendere perché quella ampia fascia d’Africa possa essere considerata una frontiera dell’Europa. L’ha fatto partendo dal ruolo complesso che svolge e che si basa sulle capacità negoziali e di alta diplomazia. Nel metodo di lavoro cerca di stare a contatto il più possibile con le persone, dai capi di stato ai ministri, agli accademici e soprattutto alla popolazione civile. È necessario per capire come stanno le cose e portare avanti una buona azione politica.

Professoressa Del Re, tra gli obiettivi della Strategia integrata dell’Unione Europea per il Sahel ci sono la stabilizzazione e lo sviluppo sociale, economico e ambientale della regione, il contrasto della migrazione irregolare e della criminalità a essa associata. È sempre molto attuale il fenomeno della migrazione irregolare?

Emanuela Del Re«Il tema delle migrazioni deve essere sempre presente nelle azioni politiche perché riguardano innanzitutto numerosi morti nel Mediterraneo, per non parlare degli “invisibili” che perdono la vita nei deserti. Deve essere poi prioritario per evitare l’orrenda pratica della tratta degli esseri umani. La politica deve affrontare la questione sulla gestione migratoria, puntando sulla prevenzione, ma curare anche l’accoglienza, in osservanza del diritto umanitario e internazionale. Ci deve essere una riflessione collettiva sul fenomeno. Il problema va affrontato trovando soluzioni tramite forme di migrazione legale e favorendo lo sviluppo di questi paesi. È anche doveroso precisare che le migrazioni non avvengono principalmente dal sud verso il nord del mondo, ma che la maggior parte avviene all’interno dell’Africa stessa. Ho seguito molto da vicino le tratte dall’Iraq verso l’Europa perché il Sahel è una zona di transito. Qui, i migranti passano, soprattutto in Mauritania o in Niger, si dirigono verso la Libia e si imbarcano per il Mediterraneo. Molte tratte clandestine sono gestite da vere e proprie agenzie che trasferiscono gli esseri umani come fossero oggetti e che andrebbero fermate».

Ci sono vie "legali" di migrazione?

«Le vie legali di migrazione ci sono ma sono molto complesse e difficili. Dico orgogliosamente che l’Italia ha dato origine al progetto dei “corridoi umanitari” - tramite collaborazioni delle ong ma anche di altre istituzioni, come il Ministero degli Interni e istituzioni locali - hanno consentito il trasferimento in aereo di persone vulnerabili in Italia già con un progetto di vita e con una possibilità di integrazione. Progetti simili sono stati attivi in Niger, ma l’ultimo colpo di stato ne ha bloccato la continuazione. La migrazione legale interessa particolarmente il Burkina Faso, ma ad oggi nella zona sono aumentati terrorismo e sfruttamento e, dunque, è più urgente l’intervento a favore delle persone vulnerabili. Incentivare la migrazione legale non è facile. Bisogna considerare che l’Africa in generale e il Sahel in particolare ha un’età media di diciotto anni e mezzo, l’analfabetismo colpisce ampie fasce di popolazione. Riuscire a reperire informazioni è difficile. Ecco perché la maggior parte delle persone finiscono nelle reti di trafficanti. Le capacità personali non mancano alla popolazione africana, ma non possono metterle in campo perché non ne hanno gli strumenti».

Qual è la ragione principale che porta le persone a emigrare?

«Non c’è una risposta univoca. La decisione dipende da molti fattori. Vediamo che i cambiamenti climatici influiscono sempre di più nella scelta. O spesso i fattori migratori possono essere conseguenze reciproche. Ad esempio, nel Burkina Faso abbiamo oltre due milioni di sfollati a causa del terrorismo che interessa la zona. Questo comporta poi una forte crisi alimentare perché le comunità devono improvvisamente gestire migliaia di persone. È tutto collegato. È chiaro che la migrazione verso posti considerati come la terra promessa, cioè l’Europa - con uno stato di welfare che consente l’accesso ai servizi di base, per la maggior parte del mondo è un sogno - diventa l’unica speranza di vita. Per questi motivi si deve implementare la cooperazione di sviluppo, di cui l’Unione europea è la maggior attrice: non dobbiamo concentrarci solo sull’aiuto umanitario che tampona l’emergenza, ma serve creare delle condizioni sostenibili di sviluppo nei paesi meno fortunati».

Dietro a queste realtà geopolitiche ci sono milioni di persone a rischio di sete, fame, carestie, siccità endemiche e fenomeni di terrorismo. Come si spiega la scarsa attenzione dei media occidentali?

«Ci sono due possibili forme di censura che lo spiegano: la restrizione delle informazioni oppure, al contrario, l’inondazione di informazioni per cui diventa difficile distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Direi che ci troviamo nel secondo contesto: una forma di inondazione, viziata dall’accelerazione dei tempi, cioè una continua rincorsa al "fatto del giorno" sommata a una riduzione dell’analisi. Questo però ha fortissime ripercussioni perché il modo di recepire le informazioni influenza le decisioni che deve prendere il cittadino, come nei contesti di esercizio del diritto di voto. Dipende poi anche dalle latitudini e dalle longitudini, infatti ad esempio in Francia c’è molta più attenzione per il Sahel rispetto a quanta ce ne sia in Italia, nonostante l’Italia sia protagonista assoluta nel Sahel perché mette in campo tante politiche. In Italia c’è meno interesse. È una domanda, una sensibilità, che dovrebbe venire anche dai cittadini».

L’Africa sembra lontana…

«E, invece, questi paesi saranno il nostro futuro: la pressione demografica è altissima, sicuramente saremmo una società mista africana. Di conseguenza speriamo di poter godere dell’incredibile capitale umano che sono i giovani africani. Hanno alte potenzialità. Cerchiamo di dare loro l’opportunità di accedere a strumenti per esprimersi a cominciare dall’accesso all’istruzione e al lavoro. La situazione richiede molto impegno».

Sul ruolo della donna nei contesti lavorativi quale differenza di trattamento osserva tra quanto accade in Sahel e quanto si verifica in Occidente?

«Premesso che nei contesti lavorativi, come quello degli affari internazionali, continuiamo ad essere troppe poche, la sorprenderò dicendo che non ho notato un trattamento discriminatorio in paesi dai quali ce lo saremmo aspettato. In Sahel vi è una particolare concezione africana del ruolo della donna, lontana dall’occidente, basta pensare che persiste in alcune zone il problema delle mutilazioni ai genitali femminili. Ma in altri territori è davvero diverso. Bisogna continuare a insistere. Ci sono molti progetti che tendono a valorizzare la donna nelle piccole comunità, è proprio da qui che sia deve partire. E questi progetti, che svolgono un lavoro a livello capillare, portano risultati importantissimi».

L’incontro
Ospite del ciclo “Women in International Affairs 2024”, Emanuela Del Re il 28 marzo alle 17.30 a Palazzo Geremia incontra la cittadinanza per parlare della Strategia integrata dell’Unione europea per il Sahel, per raccontare la sua esperienza diretta, per riflettere sulle sfide, i problemi e le opportunità della regione africana.