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Internazionale

L’IMMAGINE DELLA DIPLOMAZIA AMERICANA NEL MONDO

Una conferenza sulle tecniche di comunicazione pubblica di Rosemarie Brisciana, docente a Science Po Paris

4 marzo 2015
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Roberto Belloni
di Roberto Belloni
Professore di Scienza politica presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento.

In quale modo gli Stati Uniti promuovono e sostengono la propria politica estera? Come cercano di costruire un consenso, sia tra i propri cittadini che altrove, per le proprie iniziative? Quali strumenti hanno a disposizione e come vengono applicati? 

Rosemarie Brisciana, professoressa franco-americana d’origine italiana, docente a Science Po Paris, ha cercato di rispondere a queste domande nel corso di una lezione dal titolo “US Public Communications Techniques: Promoting Policies and Branding the Image.” Durante l’incontro la studiosa ha discusso il controverso ruolo degli Stati Uniti nella politica internazionale, e in particolare il tentativo di migliorare la propria immagine pubblica.

Il messaging della diplomazia pubblica americana è una strategia comunicativa che ha profonde radici religiose, economiche e politiche. Infatti, il discorso pubblico negli Stati Uniti è influenzato da una serie di elementi caratteristici della società americana, tra i quali la presenza di una forte religiosità, la diffusione di argomentazioni e toni moralistici, l’utilizzo di frasi fatte volte a semplificare radicalmente la realtà per catturare l’attenzione del pubblico e, non ultimo, l’importanza di sostenere e promuovere il benessere e la prosperità economica. 

L’insieme di queste caratteristiche che, secondo la professoressa Brisciana, caratterizzano la mentalità americana producendo una sorta di “religione civile”, contribuiscono a far sì che la diplomazia statunitense si pronunci talvolta con toni minacciosi e perentori che vengono articolati all’interno di un discorso che rivendica l’idea di “essere dalla parte giusta della storia.” Questi toni vengono facilmente interpretati all’estero come sintomi di arroganza e di messianismo. 

È interessante notare come questo stile perentorio di comunicazione abbia anche importanti risvolti interni: la leadership politico-militare con sede a Washington fa regolarmente appello alla paura e al senso di vulnerabilità dei cittadini americani per costruire un consenso rispetto alle proprie iniziative di politica estera.

In particolare, dopo il fallimentare intervento americano in Iraq, la diplomazia statunitense è molto sensibile alla necessità di migliorare la propria immagine domestica e internazionale. Infatti, la grandissima maggioranza di cittadini americani ritiene non solo che l’unilateralismo dell’era Bush debba essere archiviato in favore di un approccio multilaterale, ma anche che il governo americano debba limitare al minimo le proprie iniziative militari all’estero. Non a caso, il Presidente Obama ha proposto un’iniziativa diplomatica nei confronti delle crisi politico-militari in Siria e Ucraina basata su un cauto multilateralismo. 

Come i suoi predecessori, il Presidente Obama continua a utilizzare frequentemente discorsi e retoriche con forti accenni morali in riferimento alla necessità di combattere e sconfiggere il “male”, ma allo stesso tempo è attento a non fornire motivi di recriminazione sia da parte di paesi arabi che da parte di paesi alleati. Dopo lo scoppio dell’affare Snowden, che ha rivelato l’esistenza di una vasta rete di spionaggio e sorveglianza anche nei confronti dei partner europei, la cautela e la paziente costruzione del consenso sembrano prevalere nella formulazione della politica estera statunitense.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno messo in campo i tradizionali strumenti di propaganda politica per creare una simpatia, se non un consenso, rispetto alla propria visione del mondo. Se nel corso della Guerra Fredda "Voice of America" ha rappresentato il principale strumento di propaganda nei confronti del blocco sovietico, attualmente i cosiddetti "International Information Programs", tradotti in 7 lingue, mirano a vendere il prodotto americano, e in particolare a contrastare l’immagine di islamofobia, diffusa nei paesi islamici. 

L’importanza della comunicazione è confermata dal fatto che paesi con forti differenze in politica estera, come la Russia, hanno iniziato a sfidare il governo di Washington sullo stesso terreno. 

Non a caso, l’11 settembre 2013 il Presidente russo Putin ha pubblicato un editoriale sul New York Times nel quale si appellava ai cittadini americani, in toni moralistici, invitandoli a valutare le conseguenze di un eventuale intervento armato in Siria senza previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. 

L’attacco alla Siria, sosteneva Putin, avrebbe aumentato le sofferenze dei civili e quindi sarebbe stato in contrasto con i valori di umanità che la politica estera americana si propone di diffondere. Al di là delle tesi proposte, l’articolo di Putin conferma come una componente importante della politica internazionale sia composta dalla comunicazione. 

La lezione della professoressa Brisciana ha rappresentato un’interessante opportunità per analizzare questo tema troppo spesso sottovalutato nelle analisi degli specialisti.

Il seminario tenuto dalla professoressa Rosemarie Brisciana su “U.S. Public Diplomacy Communications Techniques: Promoting Policies and Branding the Image”, che si è tenuto lo scorso 25 febbraio presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento, è stato promosso dal Centro europeo d’eccellenza Jean Monnet.