Mercoledì, 22 aprile 2015

Fare una carriera internazionale. Da dove partire?

Filippo Grandi racconta la sua esperienza di diplomatico ONU

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Turchia, Kenia, Somalia, Iraq, Cambogia, Tailandia, Palestina: Filippo Grandi, nei vari fronti di crisi attraversati nell'arco della sua lunga carriera di diplomatico ONU, ha appreso qualcosa di molto importante. Ha testato sul campo il valore della solidarietà umanitaria e il suo ruolo cruciale negli interventi messi in atto dalla diplomazia internazionale per contrastare le conseguenze dell'oppressione politica, dei genocidi, delle guerre civili.

Questa profonda consapevolezza l'ha trasmessa il 21 aprile scorso agli studenti della Scuola di Studi internazionali dell’Università di Trento in occasione dell'incontro Fare una carriera internazionale. Da dove partire? Conversazioni con gli operatori esperti, organizzato nella sede di via Tommaso Gar.

L'ex Commissario Generale dell'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nei paesi del Vicino Oriente, uno tra i diplomatici di massimo livello nel sistema ONU, ha raccontato dei suoi trent’anni di vita in prima linea nel lavoro umanitario.

«Denunciare la violazione dei diritti umani, dialogare con chi ha commesso azioni atroci, cercare una mediazione pacifica, avere la responsabilità di fare delle scelte - ha spiegato Grandi - è un compito quotidiano per chi fa questo lavoro. Ed è un ruolo difficile, complicato dai numerosi tentativi di interferenza della politica, in cui capita anche di sbagliare».
Ha ripreso: «In questo momento storico assistiamo a un generale orientamento negativo dell'opinione pubblica nei confronti del lavoro delle Nazioni Uniti. È un fatto inevitabile perché la struttura di questa organizzazione è di fatto debole. Dipende dalle forze, politiche e militari, delle nazioni che vi aderiscono e non vi è cessione di sovranità nelle decisioni da parte dei governi. A questo si aggiunge il fatto che la sua struttura organizzativa e amministrativa è cresciuta in modo abnorme e questo non dà sull'esterno un'immagine di efficienza. Le Nazioni Unite non rappresentano i governi in modo perfetto. Ma almeno in qualche modo lo fanno e questo è un aspetto che legittima il loro operato in ambito umanitario e nell'affrontare emergenze globali. Non hanno il potere di risolvere le guerre, ma se hanno mandato forte, adeguato, l'ONU può creare uno spazio dove le parti possono dialogare».

Grandi ha poi precisato: «Occuparsi di gestione dei rifugiati significa portare loro aiuto, offrire supporto, rifornirli di cibo e medicinali. Ma vuol dire anche combattere le contrapposizioni culturali che nelle situazioni di crisi diventano ancora più evidenti. Lavorare in questo ambito significa avere una prospettiva privilegiata sui cambiamenti del mondo. Osservare la fine di guerre che sono durate anni, assistere ai cambiamenti di regimi totalitari. Dalla caduta del Muro di Berlino il mondo è diventato molto più complicato, il sistema di contrapposizioni classiche si è disgregato. In questo contesto gli operatori internazionali lavorano da soli, spesso senza una rete di supporto vicina. Devono resistere alle pressioni e accettare di dialogare anche con chi ha commesso crimini, cercando una mediazione. Una professione difficile che però manifesta quotidianamente il potenziale positivo che la cooperazione internazionale può avere nella risoluzione dei conflitti».