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Pensieri della mosca con la testa storta

di Giorgio Vallortigara

2 febbraio 2022
Versione stampabile

Secondo molti studiosi la coscienza sarebbe legata alla quantità e alla complessità degli elementi del sistema nervoso. Sulla scorta di nuovi dati emersi dagli studi sulle capacità cognitive degli organismi dotati di cervelli miniaturizzati, come ad esempio le api o le mosche, Giorgio Vallortigara sviluppa in questo libro affascinante una prospettiva minimalista antitetica a quella convinzione. Distaccandosi dai modelli oggi più comuni nell’ambito delle neuroscienze e della filosofia della mente, egli avanza la tesi originale che le forme basilari dell’attività cognitiva non abbiano bisogno di grandi cervelli, e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali, tra cui gli esseri umani, sia al servizio dei magazzini di memoria e non dei processi del pensiero o della coscienza. Il substrato più plausibile per l’insorgere di quest’ultima va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule, la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l’acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno, l’altro da sé. L’esistenza di un minimo comune denominatore tra noi e le forme di vita più umili ci allontana una volta di più dal concetto cartesiano dell’animale-macchina – e solleva interrogativi etici ai quali non potremo a lungo sottrarci.

Giorgio Vallortigara è professore presso il Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (CIMEC) dell'Università di Trento

Dall'Introduzione (pag.15)

Un’ape possiede nel ganglio encefalico novecentosessantamila neuroni. Con questi neuroni soltanto riesce a compiere prodezze cognitive come quella d’imparare a discriminare dei quadri di Monet da quadri di Picasso, per riconoscere poi, d’acchito, nuovi esemplari di Monet e di Picasso mai visti prima [...]

Gli esseri umani certamente non sfigurano nel confronto con le api o con altre creature munite di sistemi nervosi in miniatura [...] Però il cervello umano possiede ottantasei miliardi di neuroni: il vero mistero non è come possa riconoscere i quadri di Monet, bensì che cosa se ne faccia di tutti quei neuroni che gli avanzano. 

Mi son fatto convinto che studiando i cervelli miniaturizzati di creature come le api o le mosche dovremmo riuscire a enucleare i principi di funzionamento basilari delle menti. Quei «principi primi», che sembrano ancora mancare alle nostre discipline, dai quali tutto il resto dovrebbe logicamente discendere, compresa la natura e l’origine evolutiva delle esperienze coscienti.

Dal Capitolo 17.  L'esperienza, in breve (pag. 138-141)

Il mio fine non è la precisione, è l'evocazione. La mia idea è che
soltanto riuscendo a dire bene una cosa tu riesci a dire tutte le altre;
cioè se sei molto preciso riesci ad essere anche molto metaforico.
Daniele Del Giudice

Credo possa essere proficuo, anche a rischio di un poco di ripetitività, riassumere in breve la storia naturale dell’esperienza come ve l’ho raccontata fin qui, per riconoscerne gli aspetti cruciali, sia nelle somiglianze sia nelle differenze con il pensiero di altri autori. Come ho già osservato l’ordito in gran parte è stato intessuto da altri, io ho solo cercato di unire assieme alcuni vecchi fili. Vediamo quindi se la trama regge.

Thomas Reid ha proposto per primo di distinguere ciò che accade a noi (sensazione) da quello che accade là fuori (percezione). E abbiamo appreso, dalla clinica neurologica, come la percezione possa in effetti essere inconsapevole, ad esempio nella vista cieca. Nicholas Humphrey, riprendendo gli argomenti di Reid, ha sottolineato, inoltre, come la sensazione appaia mantenere le caratteristiche di una risposta corporea, quale probabilmente si presentava in origine nei primi organismi. In questo libro mi sono chiesto quando e per quale ragione sia comparsa la necessità di distinguere sensazione e percezione.

I primi organismi dotati di movimento attivo si sono trovati nella necessità di produrre uno sdoppiamento in un segnale sensoriale altrimenti unitario: qualcosa ti tocca perché ti è venuto addosso o perché tu muovendoti gli sei andato addosso? L’artificio che può permettere questo sdoppiamento è il fenomeno della copia efferente o scarica corollaria, che conosciamo in dettaglio dai primi anni del secolo scorso grazie al lavoro di Erich von Holst e Roger Sperry (ma che già era stato intuito da molti altri studiosi ben prima). Ogni volta che l’organismo mette in atto un movimento attivo, viene generata una copia del comando relativo al movimento che viene confrontata con il segnale sensoriale in ingresso, per modo che quest’ultimo ne risulti cancellato. Come hanno notato molti autori, questa che viene posta in essere dal meccanismo di copia efferente costituisce in effetti una primitiva distinzione tra sé e non sé, il passo cruciale per la comparsa della coscienza (alias esperienza, nell’accezione del termine che usiamo qui). Ma come può il meccanismo della copia efferente produrre l’esperienza?

L’esperienza, se seguiamo le intuizioni di Reid e Humphrey, è associata alla sensazione, a quello che succede a noi, e si manifesterebbe perciò proprio quando il segnale di copia efferente non è presente, quando cioè il segnale sensoriale non viene annichilito dalla scarica corollaria. Si noti, a questo riguardo, che quasi tutti gli autori sembrano credere il contrario, perché non distinguendo tra sensazione e percezione, associano il ruolo dell’azione motoria alla percezione (cfr. per es. Godfrey-Smith p. ).

Il segnale di scarica corollaria non era presente in origine, quando gli organismi privi di movimento attivo reagivano agli stimoli con una mera contrazione corporea (arriva lo stimolo sulla membrana, la membrana si raggrinzisce…). Cosa conferisce al segnale sensoriale degli organismi che si muovono in maniera attiva la possibilità (ma sarebbe meglio dire la necessità) dell’esperienza? La mia proposta è che se ammettiamo che la risposta sensoriale originaria fosse una contrazione localizzata del corpo (più precisamente, della membrana) potrebbe essersi evoluta una copia efferente di questo segnale di movimento corporeo oltre che l’usuale copia efferente conseguente al movimento attivo. E sarebbe la copia del segnale corporeo che viene confrontato nel comparatore con la copia del segnale conseguente al movimento attivo. Quando muovendo un braccio andiamo a incontrare con un dito il tavolo, sulla superficie del dito si produce una contrazione dell’epidermide che è del tutto analoga a quella che si manifestava nei primissimi organismi - poco importa che ora, anziché essere davvero lì, sull’epidermide, la contrazione sia stata internalizzata nell’attività dei neuroni in una porzione della corteccia, perché in un certo senso è rimasta quella che era: un’azione o, meglio, una re-azione corporea. Assieme al segnale sensoriale, perciò, viene generata una scarica corollaria che consegue a un’attività corporea reattiva – un segnale che, con un po’ di ritardo rispetto al segnale sensoriale - giunge al comparatore. Poiché abbiamo mosso attivamente il braccio, il segnale corporeo viene cancellato da questo segnale corollario motorio. Il risultato è che dal comparatore fuoriesce un segnale sensoriale che è svuotato del succo della reazione corporea. Mancando la componente dell’azione, quel sentire non è un vero sentire, un’esperienza, perché manca della giustificazione fornita dalla proprietà (ownership), che gli deriva solitamente dal fatto che l’organismo sia l’esecutore, l’autore della contrazione corporea. Non è una sensazione, quanto piuttosto la percezione di un oggetto là fuori. Viceversa, se l’arto non viene mosso attivamente ma il dito viene stimolato in modo passivo, la risposta di contrazione corporea locale non può essere cancellata dalla scarica corollaria conseguente al movimento del braccio e perciò, quando fuoriesce dal comparatore, il segnale sensoriale è carico della reazione corporea: è diventato sensazione, esperienza di qualcosa che è successo all’organismo.

Far ricorso al tatto come esempio mi fa gran comodo, perché facilita l’argomentazione. Ma l’ipotesi deve valere indipendentemente dalla modalità sensoriale. Se la visione è palpazione con lo sguardo (come sosteneva Merleau-Ponty), dovremmo essere in una perenne condizione di percezione senza sensazione perché i nostri occhi si muovono incessantemente. In effetti potrebbe essere davvero così, perché associati ai movimenti saccadici, che sono movimenti attivi, vi è la cosiddetta soppressione saccadica. Per rendersene conto basta provare a fissare alternativamente l’occhio destro e sinistro stando davanti a uno specchio; i vostri occhi vi sembreranno immobili perché durante la saccade, il movimento con cui spostate lo sguardo da un occhio all’altro, la visione viene soppressa. Se provate a fare lo stesso davanti a una telecamera che introduca un breve ritardo tra il vostro movimento oculare e il ritorno dell’immagine, vedrete i vostri occhi muoversi (lo stesso accade osservando un amico che sposti lo sguardo da un occhio all’altro davanti allo specchio, perché in questo caso non siete voi a produrre il movimento oculare).

Per gentile concessione della Casa editrice Adelphi