Vittorio Mortara

Storie

A proposito della valutazione delle università

Ripubblichiamo un testo scritto da Vittorio Mortara, in ricordo dello studioso recentemente scomparso

3 febbraio 2022
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Per ricordare Vittorio Mortara ripubblichiamo un suo ampio intervento sulla valutazione delle università, apparso in tre parti nel 1998 sui numeri 4, 5 e 6 del periodico cartaceo dell’Ateneo Unitn (direttore Enzo Rutigliano). L’articolo era stato pubblicato nella rubrica Controcorrente, la sezione più adatta per una riflessione che rivela tutta la sua indipendenza di pensiero.
Vittorio Mortara è stato professore ordinario dell’Università di Trento dal 1976 al 2002; ha insegnato a Sociologia fino al 1997, per poi trasferirsi a Economia. Ha ricoperto molti incarichi istituzionali, tra cui membro del Consiglio di amministrazione, preside della Facoltà di Sociologia, direttore di dipartimento. 
Ringraziamo la famiglia per l’uso della foto.

Parte prima

Citando un autore ottocentesco, oggi molto poco di moda, inizierò questo mio primo, e spero fermamente ultimo, contributo a unitn, affermando che “uno spettro si aggira per l’Europa” ed aggiungerò che questo spettro sta divenendo per me un vero incubo. Lo spettro è costituito dalla “cultura della valutazione” e l’incubo deriva dal fatto che mi sembra che il modo in cui oggi si vuole valutare le università in generale, l’università italiana in particolare e la nostra Università ancora più in particolare sia foriero di una serie di gravi danni alle istituzioni universitarie e più in generale alla società.

Premetto che non ho assolutamente nulla contro la “valutazione” in sé: valutare, nel senso di esprimere giudizi, è qualcosa che tutti fanno, oserei dire che è attività naturale o forse addirittura una delle poche cose che distinguono gli uomini dalle bestie. E ovviamente tutti noi abbiamo sempre valutato le università in quanto abbiamo sempre saputo che esistono “buone” università e università “mediocri” e persino “grandi” università, dove per grande non si intende solo che hanno molti studenti e molti professori, ma anche e soprattutto che sono qualitativamente meglio delle altre. Incomincio ad avere qualche problema quando si tratta di tradurre questa “valutazione” in termini più precisi o addirittura “numerici": se è vero che Harvard è sicuramente una “grande” università e lo Smalltown Community College altrettanto sicuramente non lo è, mi riesce un po’ difficile dire di quanto Harvard è meglio di SCC.

Il problema nasce a mio avviso anche e soprattutto dal fatto che la valutazione si riferisce alla capacità delle università di raggiungere gli obiettivi che esse si pongono: la formazione della nuova classe dirigente della società in cui vivono e la produzione di nuove conoscenze utili all’umanità e che il conseguimento di questi obiettivi non si presta ad agevoli misurazioni e soprattutto a misurazioni “istantanee”.

Chi può contare i componenti della classe dirigente? Quali e quante sono le scoperte che hanno “cambiato il mondo” in meglio? E, comunque, solo tra qualche decennio si saprà se lo studente Pinco Pallino, matr. 12785, laureato oggi diventerà un luminare della scienza medica oppure uno di quegli squallidi personaggi che vivono praticando aborti clandestini, un dirigente di imprese “vincenti” o il responsabile di fallimenti in serie, un integerrimo e prestigioso “grand commis” oppure uno dei tanti “mezzemaniche” che passano la loro vita angariando i cittadini con la richiesta di moduli e certificati e così via. E probabilmente altrettanto tempo sarà necessario per capire se la scoperta delle leggi scientifiche che sono alla base del rapporto tra la crescita dei capelli e le condizioni meteorologiche, effettuata dal Prof. Pink O. Smallball del Dept. of Applied Tricology dell’Università di Bigtown risolverà quello che è il problema più assillante dell’uomo moderno (e dell’autore di queste righe), la calvizie, oppure si rivelerà uno dei tanti “vicoli ciechi” che caratterizzano il progresso della scienza.

Eppure, ciò che fa una università “grande” o anche solo “buona” sono proprio la riuscita nella vita di tanti Pinchi Pallini che hanno scaldato i suoi banchi e la capacità dei suoi docenti/ricercatori di contribuire a risolvere i grandi problemi, quali quello della calvizie. Il resto, quello che tanto sembra assillare gli alfieri della “cultura della valutazione” - dal numero di studenti alle attrezzature presenti nei laboratori, dal numero dei libri contenuti in biblioteca al numero dei posti a sedere a disposizione nelle aule, dalla percentuale di “promossi” al rapporto tra personale docente e personale di bidelleria -, mi sembra assolutamente ininfluente. Una grande università non avrà problemi nel procurarsi risorse (o ne avrà di meno di una università semplicemente “buona” o “mediocre"), sarà presa d’assalto da folle di studenti (e questo la metterà in condizione - se lo vorrà e le sarà consentito di farlo - di scegliere quelli che sembrano i più promettenti), diverrà una meta “obbligata” degli studiosi più prestigiosi o più geniali, potrà fare a meno dei bidelli o assumerne centinaia a sua scelta, potrà comprare o farsi regalare nuove attrezzature e così via. Forse tutto questo contribuirà a renderla una università ancora migliore, una università “grandissima”, o forse no. Checché se ne dica, resto convinto che noi non lo possiamo sapere e non lo potremo sapere ancora per molti anni.

Parte seconda

La difficoltà di individuare e misurare il conseguimento degli obiettivi non è caratteristica propria solo delle università; personalmente ho sempre pensato (e mi pare di averlo anche scritto quando ero giovane ed avevo ancora voglia di scrivere) che sia propria di tutte le organizzazioni (anche se di alcune più di altre: pensate al povero Giovanni Paolo II che dirige una organizzazione il cui compito è quello di fare andare la gente in Paradiso); e mi sembra anche ovvio che, in mancanza di una misurazione diretta del conseguimento degli obiettivi, si possa ed anzi si debba ricorrere ad indicatori indiretti, alla misurazione cioè di qualcosa che si pensa essere in qualche modo collegata al raggiungimento degli obiettivi o che si pensa serva al (o sia indispensabile per il) raggiungimento degli obiettivi di difficile o addirittura impossibile misurazione. Ma, attenzione! Se gli indicatori sono scelti male, non sono cioè legati strettamente al conseguimento degli obiettivi, la loro dinamica avrà ben poco a che fare con il miglioramento dell’organizzazione ed anzi in qualche caso “misurerà” caratteristiche che la logica ed il buon senso ci dicono essere caratteristiche negative e non positive delle organizzazioni. Ed in questo caso più l’organizzazione risulterà “buona” sulla base degli indicatori, meno essa sarà idonea a raggiungere i suoi obiettivi o scopi che dir si voglia e più insisterà nel “valutare”, peggiore risulterà essere.

E questo sembra a mio avviso essere ciò che sta avvenendo oggi nell’università italiana ed il fatto che avvenga costituisce quel mio personale incubo di cui parlavo all’inizio: la stramaledetta “cultura della valutazione” ci porta a valutare positivamente caratteristiche negative delle università e, continuando su questa strada, l’università italiana, non certamente eccelsa, diventerà sempre peggio.

Non ho sottomano l’elenco completo degli indicatori che oggi vengono utilizzati per valutare le nostre università, ma ho avuto occasione di consultarne una delle sue prime versioni e qualcosa ricordo. La maggior parte dei numerini che ci si chiedeva di fornire era tutto sommato abbastanza innocua ed aveva a che fare con il modo in cui sono spese le scarse risorse messe a disposizione. Ora, che non si sciupino, “distraggano” o rubino i pochi fondi che l’erario pubblico mette a disposizione degli atenei è questione molto importante per Ciampi & Co. e per i cittadini italiani che in ultima analisi pagano il conto, anche se ovviamente non ha nulla a che fare con ciò che rende “buona” o “grande” un’università. Se questa è la “valutazione”, valutate pure! Non sarà un toccasana, ma almeno danni non ne fa.

Ma altri numerini, soprattutto tra quelli che pretendono di misurare i “risultati”, sono molto meno innocui ed almeno due di essi sono tali da far rizzare i pochi, pochissimi capelli che mi restano.

Il primo attiene alla misurazione dei risultati dell’obiettivo formativo: sembra molto importante che la “mortalità” studentesca cali e che l’università perfetta, la “grande” università sia quella che riesce a trasformare tutti gli studenti che vi sono ammessi (ma che dico! - tutti gli studenti a cui è balenata per la testa l’idea di iscriversi), nel più breve tempo possibile in altrettanti laureati. Ora, a parte la natura iettatoria della terminologia adottata (ma che mortalità e mortalità! Dal punto di vista della salute, la scelta dello studente di abbandonare gli studi è probabilmente la scelta giusta: meno stress e meno preoccupazioni in una età cruciale lo faranno certamente vivere più sano e più a lungo!), a prescindere dal fatto che mi sembra esistere oggi un problema di disoccupazione intellettuale che bisognerebbe cercare di non aggravare e senza tenere conto del fatto che è troppo facile barare in materia (basta eliminare dal curriculum tutte le materie difficili ed essere “comprensivi” negli esami, perché l’indicatore di cui ci stiamo occupando punti verso il “bello stabile”), a me sembra che una delle caratteristiche delle “grandi” università sia sempre stata e sia tuttora proprio quella di far proprio il motto evangelico che recita “molti sono i chiamati e pochi gli eletti”, semmai con una piccola aggiunta che lo trasformi in “molti sono i chiamati, pochi gli ammessi, pochissimi gli eletti”. In altre parole, ciò che questo indicatore ci chiede è di non essere selettivi (mi rendo conto del fatto che parlare oggi di “selezione” non è politically correct, ma la cosa non mi fa né caldo, né freddo). Non capisco (specie in un paese in cui oltre il 90% dei candidati ad una maturità la consegue), ma posso anche adeguarmi. Non venite poi però a lamentarvi con me se il medico si rivelerà un assassino in camice bianco, se i managers faranno sistematicamente fallire le imprese, se la burocrazia vi perseguita, se l’avvocato vi fa andare in galera, se i ponti crollano, etc. etc.

Parte terza

La pretesa di valutare la “produttività scientifica”, cioè il contributo dell’università al progresso della scienza attraverso il numero delle pubblicazioni e i congressi da essa organizzati è davvero ridicola. Sui fasti (pochissimi) ed i nefasti (tantissimi) del turismo accademico spero di potermi intrattenere un’altra volta: si tratta di una delle mie “bestie nere” e non vedo l’ora di sfogarmi; ma è impossibile non parlare (male, malissimo) sin d’ora del conto delle pubblicazioni.

Anche questa volta possiamo incominciare con una serie di “a prescindere” degna del peggior Totò: non mi dilungherò quindi sui gravi danni ecologici causati dall’abnorme consumo di carta implicito nell’incoraggiare in tal modo il popolo universitario a pubblicare, pubblicare, pubblicare; e tacerò dell’odioso business che ne scaturisce (l’editore di una rivista scientifica si fa in genere pagare i costi dai contributori e non paga diritti d’autore: è un perfetto esempio di parassita sociale); e non mi dilungherò neppure sui gravi danni ai bilanci delle università causati dal proliferare delle riviste, tutte costose e tutte per il 99% inutili, o sul fatto che il famigerato “publish or perish” sottrae all’università tanti eccellenti docenti afflitti da crampo dello scrivano. Sarò brevissimo e mi limiterò ad osservare che il mondo è pieno di eccelsi scienziati che hanno cambiato il mondo con un articolo (o, in tempi più felici, con qualche lettera rivolta agli amici) e - purtroppo - ancora più pieno di personaggi che hanno scritto migliaia di pagine senza fare avanzare di un millimetro il progresso scientifico. Vogliamo incoraggiare questi ultimi e scoraggiare i primi?

Continuiamo a contare le pubblicazioni e premiare chi sporca carta e spreca tempo dei lettori (fortunatamente pochi), chi pubblica almeno 10 volte i risultati di una ricerca che nel 90% dei casi è perfettamente inutile o costituisce una duplicazione di cose già fatte, chi costruisce e pubblica enormi collage di frasi altrui, chi segue i filoni alla moda, chi vuole a tutti i costi dire la sua, e così via. E continuiamo a punire chi per pubblicare qualcosa aspetta di avere qualcosa di veramente importante da dire (e, posto che i geni sono pochi, non pubblica quindi mai o quasi), chi cerca strade non battute e rifiuta i paradigmi dominanti (e quindi non riuscirà a pubblicare perché i referees lo bloccheranno) e chi ha buone idee, ma preferisce parlarne agli amici piuttosto che gettarle in pasto al pubblico, etc. In breve, continuiamo a contare le pubblicazioni. Ma poi, di nuovo, non venite a lamentarvi con me se la ricerca universitaria langue, se le grandi scoperte si fanno altrove, se l’università nel suo complesso è sempre meno apprezzata.