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Internazionale

BREXIT: E PER NOI COSA CAMBIA?

Quali effetti, dovuti al cambiamento politico, impatteranno su ricerca, studio e lavoro. Ce ne parla Luisa Antoniolli

26 giugno 2016
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Daniela Costantini
di Daniela Costantini
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Abbiamo intervistato Luisa Antoniolli, docente di Diritto privato comparato, Facoltà di Giurisprudenza, e direttrice della Scuola di studi internazionali dell'Università di Trento, per cercare di capire meglio quali potranno essere gli effetti post-Brexit nel mondo accademico.

Un referendum che porterà un cambiamento politico importante: come si inserisce questo cambiamento nel contesto universitario e, soprattutto, nella ricerca? E quanto l'uscita della Gran Bretagna dalla UE influenzerà le possibilità di studio e lavoro?

Pur non avendo una competenza diretta in materia di università, l’Unione europea costituisce un riferimento essenziale in questo settore: le norme in materia di libera circolazione e non discriminazione garantiscono agli studenti che sono cittadini UE la possibilità di accedere alle Luisa Antoniolliuniversità inglesi su un piano paritario rispetto agli studenti nazionali, pagando le stesse tasse universitarie. Per quanto riguarda la ricerca, l’Unione europea costituisce ormai uno dei principali finanziatori per tutti gli Stati membri, attraverso i progetti legati agli obiettivi fissati da Horizon 2020, e strumenti quali le borse Marie Curie-Slodowska e lo European Research Council. L’uscita del Regno Unito dall’UE ha potenzialmente delle ripercussioni molto rilevanti, potendo determinare l’applicazione di trattamenti differenziati per gli studenti UE, e sull’altro versante l’esclusione delle Università britanniche dagli accordi e dagli strumenti finanziari europei (non a caso le principali università del paese, fra cui Oxford, si sono schierate apertamente per il “remain”). Fino a quando non sarà concluso l’accordo che sancirà l’uscita dall’UE, tuttavia, non è possibile sapere quali saranno le soluzioni, che potranno essere più o meno restrittive sia per l’UE che per la Gran Bretagna.
Un discorso analogo può essere fatto in riferimento alle opportunità di lavoro: le regole dell’Unione europea garantiscono la libera circolazione dei lavoratori, il che significa che ogni lavoratore che sia cittadino UE ha diritto a spostarsi in un altro Stato membro, e quindi fino ad ora anche in Gran Bretagna, per cercare lavoro ed ottenere condizioni di impiego identiche a quelli dei lavoratori britannici (stipendio, orari, regime di licenziamento, ricongiungimento dei familiari), fino al diritto di rimanere nel paese in seguito al pensionamento. È stato proprio questo uno dei punti più controversi nel dibattito politico precedente al referendum: i fautori della Brexit hanno rivendicato il diritto della Gran Bretagna di limitare l’immigrazione (legale, va notato) di lavoratori stranieri, ritenendo che questi flussi potessero compromettere il mercato del lavoro e il livello delle prestazioni sociali nazionali.

Quale potrà essere l'impatto sull'economia e sull'export italiani nel breve e nel lungo periodo?

Nell’immediato non dovrebbe succedere nulla: fino alla conclusione dell’accordo di recesso il Regno Unito continuerà ad essere un membro dell’Unione europea, e quindi si continueranno ad applicare le norme attuali. I tempi per il negoziato e l’entrata in vigore di tale accordo non sono valutabili con precisione, ma presumibilmente richiederanno un tempo piuttosto lungo, dell’ordine di alcuni anni: l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che in seguito alla richiesta formale di recesso l’accordo debba essere concluso entro due anni (a meno che il Consiglio europeo non decida all’unanimità di prorogare il termine). L’impatto sull’economia e sugli scambi commerciali europei, britannici ed italiani, dipenderà dal contenuto dell’accordo: quanto più simili saranno le regole a quelle attualmente vigenti nel mercato unico, tanto più l’impatto sarà limitato. Viceversa, se si sceglierà di creare barriere, queste incideranno sensibilmente sull’economia e sul commercio. Non va dimenticato, tuttavia, che il protrarsi della situazione di incertezza in attesa dell’accordo è molto dannoso per l’economia, riverberandosi in una volatilità e fragilità di molti settori economici, in particolare quelli dei servizi finanziari e bancari.

Svizzera, Norvegia e Islanda pur non appartenendo all'UE fanno parte dell'associazione economica europea EFTA (European Free Trade Association), che prevede libero scambio di beni e servizi alla pari con le nazioni comunitarie. Potrebbe funzionare anche per la Gran Bretagna?

Molti degli Stati che appartenevano originariamente all’EFTA, istituita nel 1960, sono non a caso divenuti successivamente membri della Comunità prima, e dell’Unione europea poi: si pensi ad esempio ad Austria, Svezia, Finlandia. Alcuni di quelli che sono rimasti fuori dell’UE hanno poi negoziato accordi di integrazione più intensi attraverso lo Spazio economico europeo (SEE), creato nel 1994. L’Unione europea esercita una notevole forza centripeta, e molti paesi hanno ritenuto che, dovendosi comunque adeguare alle norme del mercato interno, era meglio entrare nel club e riuscire quindi a prendere parte direttamente ai processi decisionali europei. Paradossalmente, quindi, anche una volta uscita dall’UE la Gran Bretagna potrebbe vedersi costretta ad adottare, almeno parzialmente, norme analoghe a quelle dell’UE, per potere mantenere contatti economici e commerciali vitali.

Innegabile la responsabilità di un'Europa che, alla visione xenofoba, non ne ha saputo contrapporre una capace di unire. Quali azioni saranno necessarie nell'immediato per evitare altre "Brexit"?

Il progetto europeo è nato negli anni ’50 per obiettivi vitali ed epocali, ovvero garantire la stabilità e la pace del continente europeo dopo decenni di devastazione conseguenza dei conflitti. L’integrazione economica era considerata solo un primo strumento in quella direzione, ma nel corso del tempo ha avuto un tale successo da adombrare lo scopo ultimo dell’integrazione europea, che era primariamente politico e sociale. Se non si riesce a recuperare questa dimensione politica e sociale, sarà impossibile convincere i cittadini europei della bontà del progetto europeo in un momento di profonda crisi economica e di grande insicurezza geopolitica. La Brexit comporta quindi non solo un grande pericolo, quello dell’effetto domino che potrebbe portare all’implosione dell’Unione, ma anche una grande opportunità per riformare una macchina che appare ormai pesantemente disfunzionale. Occorre sapere cogliere tempestivamente questa occasione, perché è una sfida vitale per i cittadini e gli Stati europei. Per farlo, occorre visione e coraggio, merce rara di questi tempi, si direbbe guardando le reazioni di questi giorni.