Immagine tratta dalla copertina del libro

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FIDARSI. L'AMEN DELLA FEDELTÀ

di Paolo De Benedetti e Massimo Giuliani

20 settembre 2016
Versione stampabile

Il testo che segue è l’incipit di una riflessione filosofica e religiosa sulla fiducia come fondamentale attitudine umana. Si tratta di una vera e propria fenomenologia dell’atto di fidarsi e affidarsi, senza il quale non vi sarebbero relazioni interpersonali. Questa riflessione costituisce il quarto momento di un progetto incentrato su cinque parole-chiave della tradizione ebraico-cristiana: lo shalom (saluto di pace), la teshuvà (pentimento e perdono), l’hallelujah (gratitudine e ringraziamento), l’amen (fiducia e fede) e l’ultimo, in uscita tra qualche mese, il messia (ovvero la speranza e la consolazione). 

Paolo De Benedetti, già docente di Giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e di Antico Testamento a Urbino e Trento.

Massimo Giuliani è docente di Pensiero ebraico presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

Dall'incipit, pp. 7 - 11

Non esiste un gesto solo o un singolo termine che esprimano il fidarsi, il credere alla parola del nostro prossimo o meglio ancora l’af-fidarsi a chi ci ama o ha cura di noi. Trattandosi di un atteggiamento e una disposizione dello spirito, nella vita quotidiana vi sono molti gesti e più espressioni che possono mostrare, a noi stessi e agli altri, la volontà di instaurare sentimenti e legami basati sulla ‘fede’, intesa qui come fiducia reciproca, come legame di affidamento e persino come abbandono. Tra adulti si tratta quasi sempre di una decisione che ha molte motivazioni – spesso il sentimento unito alla ragionevolezza, altre volte il calcolo (fidarsi conviene più del non fidarsi e può risultare un buon investimento) –  anzi di una vera e propria azione volitiva: fidarsi è più autenticamente un volersi fidare o un volersi affidare, più o meno consapevoli delle conseguenze di quest’atto di fede: infatti, con tale atto, rinunciamo a essere i soli arbitri delle nostre scelte, cediamo una parte della nostra libertà e finiamo in balia della volontà altrui. Diamo, o meglio offriamo la nostra fiducia, nella convinzione e nella speranza di ricevere quella altrui, e nella convinzione che il nostro fidarci si bilancerà con l’altrui fedeltà e cura, con un amore ricambiato.

Non a caso la fenomenologia dell’atto di fiducia e della fedeltà trova una messe di esempi – di verifiche o di smentite – proprio nell’ambito delle relazioni di coppia, dentro e fuori l’istituto del matrimonio. Fedifraghi e traditori delle promesse nuziali, tuttavia, non sono che ‘casi negativi’ nel vasto repertorio degli atti e delle attitudini in cui prestiamo fede al prossimo, assumendo e presumendo che si tratti di una fede ben riposta. Non spendiamo secondo pensieri sulla buona fede di chi, in famiglia o a scuola, cerca di aiutarci con suggerimenti e consigli; non dubitiamo al mattino che l’autista del tram o del treno abbia intenzione di portarci a destinazione; non sospettiamo al bar, bevendolo, che il caffè sia avvelenato o al ristorante che ci vogliano intenzionalmente intossicare. Di più, siamo quasi tutti ben propensi a credere al medico al quale ci rivolgiamo per un malessere fisico, comprando e assumendo le medicine che ci ha prescritte; e alcuni di noi si fidano altrettanto di un prete o di un rabbino o di uno psicologo, spingendoci a confidar loro le nostre pene morali e i nostri dubbi interiori. Diamo confidenza, appunto, perché abbiamo fiducia, ossia diamo (e riceviamo) l’intima certezza che vale la pena volersi affidare a qualcuno che ci conosce o che sa cosa sia meglio per noi. Questo, s’è detto, avviene nella sfera volitiva, tra persone adulte e mature.

Ma la fiducia ha una base materiale, se così si può dire, in una sfera del tutto involontaria e nasce da un’esperienza universale: l’essere stati oggetto di cure e di amore in uno scambio gratificante ma che non ha avuto inizio da noi. Come neonati e come bambini abbiamo esperito l’abbandono e la fiducia nelle cure gratuite e (per chi le riceve) infinite – nel senso che paiono (e pretendiamo che siano) inesauribili – da parte dei nostri genitori, dei nostri tutori o di chi è preposto alla nostra crescita nei primi anni di vita. Fiducia biologica, istintiva e quasi automatica, grazie alla quale abbiamo imparato a intessere rapporti fiduciosi con il mondo, imparando la gratuità delle cose fondamentali e aprendoci, poco alla volta, alla responsabilità, cioè alla risposta altrettanto gratuita, alla reciprocità degli effetti e delle cure. La verità di questo scambio fiduciario è provata, sin troppo, dalle situazioni opposte, come la privazione di affetti e di cure o persino l’esposizione alla violenza e al rifiuto, che sono cause di ferite e di traumi che a fatica vengono superate solo in età adulta (se mai vengono superate). Il bimbo che succhia al seno della madre o il cucciolo che gioca con il proprio genitore – umano o animale che sia – è l’icona più alta di questa fiducia naturale che regge le cose belle del mondo. La gratitudine avrà tempo, in futuro, per esprimersi. Nell’ora dell’allattamento vale solo il gusto del latte e la certezza che il seno (o la tettarella) non tradisce.

Come nel caso del saluto e del riconoscimento, del perdono e del ringraziamento, l’ampia sfera dei valori esistenziali legati all’atto di fede, della fiducia e della fedeltà – accumunati da un’unica radice in diverse lingue – trova apprezzamento e celebrazione in tutte le tradizioni religiose, che elevano la fede in Dio e la fiducia divina nell’uomo a prototipo di ogni pienezza di relazione, a modello di ogni rapporto reciproco e a ideale di ogni patto o alleanza. Il matrimonio tra uomo e donna non è che un’esplicitazione di quell’alleanza che le tre fedi monoteiste ritrovano nel rapporto tra Dio e l’umanità, segnatamente tra Dio e il popolo di Israele, tra Dio e la chiesa, tra Dio e l’umma (la comunità dei musulmani). Fedeltà e tradimenti, impegni mantenuti e promesse mancate, rinnovata fiducia e continue tentazioni di rifiuti e ribellioni… non sono che il dentro-e-fuori della storia di ogni rapporto basato sulla scelta volontaria di fidarsi, di aver fede, di continuare a credere nonostante tutto.

Nella lingua ebraica, la lingua della Torà, la radice semantica alef-mem-nun dà origine a termini come emunà, che vale per fede/fiducia; amen, che potrebbe tradursi con un ‘ci credo e mi affido’ ma anche con ‘affidabile perché degno di fede’, ‘meritevole di sostegno’, ‘fermo e confermato’ e dunque vero e autentico. Il termine omen poi vale per pedagogo-istruttore (omenet, al femminile) e omnà significa pilastro o colonna, con chiaro rimando al Tempio. La casa di Dio si regge non su colonne di marmo – destinate a diventare belle rovine – ma sulla fede di Dio negli uomini e degli uomini in Dio nonché sullo studio e l’insegnamento della Torà. Le prime due lettere della radice, inoltre, sono alef-mem, che da sole indicano ‘madre’, la matrice, la sorgente con il suo nutrimento, il seno con il latte, la fede allo stato biologico e spirituale più puro. Non va nemmeno taciuto, in vero, che la parola emunà può ben tradursi con superstizione – la base della magia, dell’idolatria e dell’inganno – perché la fiducia può essere data a chi non la merita, si può credere il non-vero e affidarsi alla persona indegna (al medico, all’avvocato, al confessore, al tutor… sbagliati). La fede può essere mal riposta e la fiducia tradita. Per questo occorre vagliare l’atto di fede, e non esser ingenui.  Una fede ottusa e un abbandono cieco diventano facili prede dei furbi e si trasformeranno presto in disinganno e amarezza. 

Resta vero, nondimeno, che di fidarci abbiamo anzitutto bisogno, un bisogno esistenziale, e che solo in seconda battuta la fede diventa risposta, reazione e ricambio. Prima di essere una ‘virtù teologale’ (che viene da Dio), la fede è una virtù antropologica, una delle grandi disposizioni dell’animo umano grazie alla quale interagiamo nel mondo con adattabilità e saggezza. Essa si esprime ora con un sì (come nel patto matrimoniale), ora con un semplice ok, ora con un silenzio-assenso, ora con un silenzio di rassegnata accettazione. Fiducia, fede e fedeltà conoscono progressione e sfumature, tempi e modi e gradi diversi nel tempo e nello spazio, nelle età e nelle congiunture della vita. Se tentassimo di coglierle con un’istantanea, le troveremmo in perenne bilico o in precario equilibrio. Come ha scritto la rabbinessa francese Pauline Bebe,
la fedeltà non è uno stato d’essere ma un’esigenza, un po’ come certe coppie dipinte da Marc Chagall che stanno sospese a mezz’aria in un equilibrio precario, l’una/o sulle spalle dell’altro/a, con una mano tesa verso il cielo; basterebbe un piccolo soffio e il bicchiere che reggono sulla testa – simbolo del qiddush e della loro unione sponsale – potrebbe precipitare da un momento all’altro e rompersi; e tuttavia, fin che guardiamo, il quadro è lì e la coppia si regge e regge il suo bicchiere come per miracolo1.

 

Per gentile concessione di Editrice Morcelliana.