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Formazione

ISTRUZIONE E MOBILITÀ SOCIALE NEL XX SECOLO

Conversazione con Richard Breen, professore di Sociologia all’Università di Oxford e membro della British Academy

18 gennaio 2017
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ISTRUZIONE E MOBILITÀ SOCIALE NEL XX SECOLO
di Moris Triventi
Ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.

Richard Breen  è uno dei più importanti e influenti studiosi contemporanei di mobilità e disuguaglianze sociali nonché esperto di metodi quantitativi per l’analisi dei fenomeni sociali. Approfittando di un suo periodo di visiting presso l’Università di Trento, dove a dicembre ha tenuto una Lectio Magistralis organizzata dalla Scuola di Dottorato in Scienze Sociali, Moris Triventi lo ha intervistato per conto di UniTrentoMag. Riportiamo qui di seguito la traduzione di alcune parti salienti dell’intervista.  

Da dove viene l’idea di un periodo di visiting presso l’Università di Trento? È la prima volta o era già stato qui in passato?
La prima volta che visitai Trento fu nel 1992 in occasione della conferenza del Comitato di Ricerca 28 sulla Mobilità e la stratificazione sociale dell’Associazione Internazionale di Sociologia (ISA-Rc28). Fu un’occasione stimolante di confronto tra un piccolo gruppo di studiosi interessati all’analisi dei processi di disuguaglianza e di mobilità sociale nelle società economicamente sviluppate. Dopo svariato tempo, ebbi l’occasione di tornare nel 2013, quando una conferenza dello stesso comitato di ricerca – ma dalle dimensioni ben più ampie – fu nuovamente organizzata presso dall’Università di Trento. Sono poi stato invitato di recente a tenere alcune lezioni presso la Scuola di dottorato in scienze sociali all’interno di un periodo di visiting. Quest’ultimo mi ha consentito di lavorare alla finalizzazione di una ricerca comparata su cui sono stato impegnato negli ultimi anni. In particolare, ho potuto collaborare strettamente con Ruud Luijkx (professore associato presso l’Università di Tilburg e Research fellow nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento) alle conclusioni di un libro di prossima pubblicazione sulla mobilità sociale nel XX secolo, a cui hanno preso parte studiosi di varie nazionalità. 

I temi delle disuguaglianze sociali nei corsi di vita e della mobilità sociale sono al centro dei suoi interessi di ricerca negli ultimi vent’anni. Cosa l’ha condotta allo studio di tali fenomeni? Perché li ritiene importanti?
Fin dalla tesi di dottorato mi sono interessato a questioni connesse ai temi della disuguaglianza sociale, in particolare a come la posizione degli individui e delle famiglie nella struttura sociale garantisse loro un accesso a risorse socio-economiche differenziate, in grado di influenzarne i corsi di vita. Ho poi approfondito l’analisi delle disuguaglianze focalizzandomi sul tema della mobilità sociale perché ritengo sia un aspetto fondamentale del funzionamento delle società contemporanee. Esse, infatti, abbracciano l’idea che la posizione sociale raggiunta non debba dipendere tanto dalle risorse della famiglia di origine, bensì esclusivamente dalle proprie capacità e impegno. Gli studi sulla mobilità sociale tentano proprio di capire in quale misura la famiglia di provenienza (in termini di livello di istruzione e classe sociale dei genitori) è in grado di influenzare i destini educativi ed occupazionali degli individui e come il suo peso sia cambiato nel tempo.

In breve, quali sono i risultati principali a cui è giunto nei suoi ultimi studi sulla mobilità sociale in Europa?
Seguendo una tradizione consolidata negli studi sulla stratificazione sociale, abbiamo utilizzato tavole di mobilità per esaminare com’è variata l’associazione tra classe sociale di origine e di destinazione tra individui di vari paesi, nati tra gli inizi del XX secolo e la metà degli anni ’70. Per contare su campioni con un numero di casi sufficientemente ampio abbiamo utilizzato dati tratti da varie indagini campionarie armonizzate tra loro. Prendendo in considerazione sei paesi, abbiamo trovato un aumento della cosiddetta fluidità sociale in Svezia, Germania, Olanda e Francia; una tendenza simile è osservata negli Stati Uniti, ma non in Gran Bretagna, in cui vi è stato un aumento della forza del legame tra origini e destinazioni sociali. Abbiamo inoltre trovato che l’espansione dell’istruzione è in grado di spiegare tale aumento della fluidità sociale in vari paesi, in particolare in Svezia e Germania. A parità di livello di istruzione raggiunto, l’origine sociale esercita comunque un effetto diretto sul raggiungimento di alte posizioni sociali, ma in molti paesi questo legame è inferiore tra i laureati. L’espansione dei tassi di scolarizzazione tra gli strati sociali più bassi sembra quindi aver avuto un ruolo non trascurabile nel produrre un incremento della fluidità sociale in alcuni paesi e in periodi storici specifici, pur non essendo una panacea per l’aumento della mobilità sociale.
 
Come si posiziona l’Italia nel contesto internazionale?
In Italia nel XX secolo vi era una forte associazione tra origini e destinazioni sociali. Come in altri paesi, si è verificata una riduzione delle disuguaglianze sociali nell’istruzione e ciò ha generato un aumento della fluidità sociale, in un contesto in cui i rendimenti occupazionali dell'istruzione sono diminuiti molto lentamente. Tuttavia, queste tendenze di equalizzazione si sono realizzate principalmente nel periodo del boom economico, mentre si sono arrestate nelle coorti nate successivamente. Le risorse della famiglia di origine, perciò, giocano ancora un ruolo chiave nelle traiettorie educative ed occupazionali degli italiani nati nelle coorti più recenti. 

In un periodo di crescente importanza – almeno sulla carta – della relazione tra ricerca e policy making, quale può essere il contributo degli studi sulla mobilità sociale alle politiche pubbliche? 
Gli studi sulla mobilità sociale adottano metodi rigorosi, hanno una tradizione di ricerca solida e caratterizzata da una certa ‘cumulatività’ dei risultati di ricerca. Tuttavia, è importante essere consapevoli di ciò che tali ricerche possono effettivamente dirci. Le analisi di mobilità ci informano su come gli individui si sono ‘mossi’ nella struttura sociale e in quale misura le origini sociali ne hanno condizionato le carriere occupazionali. Tuttavia, il confronto tra posizioni di partenza e di arrivo non può essere utilizzato direttamente per trarre conclusioni inequivocabili sulla (in)eguaglianza delle opportunità. Tali studi possono mettere in luce tendenze di lungo periodo nel grado di fluidità sociale. L’analisi dei legami tra le variabili tradizionalmente considerate (origine sociale, istruzione, posizione sociale raggiunta) può fornire solo indicazioni di massima sugli aspetti su cui intervenire al fine di ridurre le disuguaglianze intergenerazionali. Tuttavia, a tal fine, è necessario che gli studi di mobilità di ampio respiro dialoghino con ricerche in grado di analizzare specifici meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze.

Quali possono essere delle linee di sviluppo interessanti nello studio delle disuguaglianze sociali?
Una prima linea di ricerca, che sto perseguendo in questi ultimi anni, ribalta l’approccio tradizionale degli studi di mobilità: mentre questi ultimi analizzano retrospettivamente le origini sociali di una data generazione, il nuovo approccio si concentra sulla generazione dei genitori per esaminare le carriere dei figli. In questo modo è possibile tenere in considerazione anche aspetti demografici ignorati dagli studi tradizionali, ad esempio è possibile includere nelle analisi chi non ha avuto figli o è deceduto prematuramente. Esistono anche altre prospettive interessanti per gli studi sulle disuguaglianze sociali. In particolare, vi è una crescente attenzione verso le ricerche che, adottando una prospettiva interdisciplinare, tentano di considerare al contempo fattori di stampo sociale e biologico-genetico utilizzando dati sui gemelli oppure raccogliendo informazioni di carattere biologico. Dal punto di vista dei dati, inoltre, ritengo che gli studiosi di stratificazione sociale debbano considerare la possibilità di utilizzare fonti di dati supplementari rispetto alle tradizionali indagini campionarie, ad esempio dati amministrativi o i cosiddetti ‘big data’, pur non trascurando di valutarne attentamente i limiti. 

Infine, una curiosità. Documentandomi sul suo curriculum, ho appreso che, all’inizio degli anni Ottanta, ha conseguito un dottorato in Antropologia presso l’Università di Cambridge. Vorrei pertanto chiederle com’è nata la passione per lo studio dei fenomeni sociali attraverso l’impiego di metodi quantitativi, un approccio piuttosto differente da quello usualmente adottato nelle ricerche di carattere antropologico.
La mia tesi di dottorato era basata su un’etnografia nelle campagne irlandesi ed era volta a capire come mai alcuni contadini adottarono una serie di innovazioni tecnologiche nel loro lavoro quotidiano, mentre altri si mostrarono più reticenti a farlo, a scapito della loro produttività e competitività. Ero interessato in particolare a esplorare non solo spiegazioni legate a fattori economico-strutturali, ma anche il ruolo delle caratteristiche della famiglia di appartenenza. Sul finire del mio periodo di dottorato parlai del mio argomento di tesi con un amico demografo che mi disse “Ehi, sembra proprio un interrogativo di ricerca da indagare attraverso metodi statistici come la regressione multipla!”. Fui molto incuriosito da quel commento e, in seguito al dottorato, decisi di approfondire la questione cominciando a leggere del materiale su questi metodi. Ne fui talmente appassionato che decisi di studiare in modo approfondito la statistica e da allora la considero uno strumento molto utile per fornire risposte a quesiti su fenomeni sociali di mio interesse.