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MINDFULNESS: MEDITAZIONE E SCIENZE COGNITIVE SI INCONTRANO

Uno studio sperimentale sulla capacità di regolare le proprie emozioni a partire da pratiche di meditazione

29 ottobre 2014
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Alessandro Grecucci
Edoardo Pappaianni
di Alessandro Grecucci ed Edoardo Pappaianni
Alessandro Grecucci, neuroscienziato e psicoterapeuta, è collaboratore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’Ateneo. Edoardo Pappaianni è studente magistrale in Psicologia (percorso Neuroscienze) dell’Ateneo.

Ogni giorno veniamo assaliti da considerazioni riguardanti eventi passati o futuri, ci pensiamo e rimuginiamo o, più semplicemente, viviamo in uno stato di passività e automaticità nell’affrontare l’esperienza quotidiana, senza una partecipazione e consapevolezza attiva di sé.

Il termine “mindfulness”, che trae origine dalla lingua Pali, deriva dalla fusione delle parole Sati e Samprajanya; questi due lemmi insieme hanno fondato il concetto di mindfulness che, in una traduzione letterale seppur abbastanza semplicistica e banale, significa “consapevolezza”. Quest’idea, conosciuta già da millenni, deriva in particolare dalla psicologia introspettiva orientale, di influenza buddhista, e nella sua accezione più generale indica il “porre attenzione a ciò che succede nell’esperienza con pazienza e cura”. Il mezzo attraverso il quale può essere coltivata è la pratica della meditazione. Il fondatore di questa visione “scientifica” è il dottor Jon Kabat-Zinn, il massimo esperto occidentale di tale pratica. In un’opera del 1994, egli descrive la mindfulness come un processo “On purpose” (intenzionale), “Paying attention” (prestando attenzione), “In a particular way” (con un atteggiamento particolare); in altre parole, prestare attenzione all’esperienza così come si presenta senza filtri interpretativi.

La mindfulness negli anni passati non è stata esente da pregiudizi di stampo religioso, in quanto indissolubilmente associata al credo buddhista. Al giorno d’oggi, invece, la superstizione ha lasciato spazio al sapere scientifico e psicologico: ciò ha portato da una parte ad una sua rivalutazione, dall’altra alla creazione di una vera e propria “Scienza della mindfulness”, connotata da una rinnovata valenza epistemologica. 
Se da un punto di vista psicologico la mindfulness è efficace nei compiti che richiedono attenzione, parallelamente le moderne tecniche di neuroimmagine hanno permesso di ipotizzare quali siano i sistemi neurali adibiti a quest’incremento delle abilità di concentrazione. Hölzel, Lazar, Gard, Schuman-Olivier, Vago, e Ott (2011) hanno dimostrato che sono la corteccia prefrontale mediale dorsale (dmPFC) e la corteccia cingolata anteriore (ACC) le aree maggiormente interessante durante il processo di meditazione.

Accanto a ciò, da altri studi di risonanza magnetica funzionale è emerso che lo spessore corticale nell’ACC dorsale dei meditatori esperti è maggiore rispetto alla norma in un’analisi della materia grigia del cervello (Granbt et al., 2010). Attraverso l’elettroencefalografia (EEG), alcune ricerche hanno confermato l’ipotesi che i meditatori di lungo termine avessero una presenza maggiore di onde alfa (tipiche del riposo mentale) e theta (caratteristiche del dormiveglia). Accanto alle ricerche di neuroimmagine, negli ultimi vent’anni c’è stato un drastico aumento di interventi clinici che sfruttano le competenze di meditazione, in particolar modo quelle della pratica mindfulness. Negli Stati Uniti sono circa 10 milioni i praticanti, nel resto del mondo si arriva a contarne centinaia di milioni. Nel 1997 più di 240 ospedali e cliniche internazionali offrivano trattamenti di riduzione dello stress basati su mindfulness (Salmon et al., 1998). Kabat-Zinn è stato il promotore del “Mindfulness-Based Stress Reduction” (MBSR), programma di trattamento originariamente sviluppatosi per la gestione del dolore cronico, poi estesa ai disturbi d’ansia e depressivi (Kabat-Zinn, 1982). 

Ma come agisce la mindfulness? Numerose ipotesi sono state fatte nel corso degli anni, ma quella più recente, su cui al dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive stiamo lavorando, è che la mindfulness agisca tramite un processo di regolazione emozionale, definita come la capacità che hanno gli individui di regolare le proprie emozioni. 

Per capire questo aspetto insieme ad alcuni colleghi tra cui il dottor Nicola De Pisapia, la professoressa Maria Paola Paladino  e il direttore del dipartimento Remo Job, abbiamo condotto uno studio sperimentale in cui è stato chiesto ad un gruppo di meditatori mindfulness e a un gruppo di soggetti di controllo non meditatori di eseguire due compiti di regolazione emozionale interpersonale. I risultati dello studio hanno dimostrato da una parte che i meditatori differivano dai soggetti per la forza di reattività emozionale (ovvero i meditatori provavano una reazione emozionale meno intensa da un punto di vista psicologico e fisiologico), dall’altra che i meditatori sviluppavano un atteggiamento di distacco dall’esperienza emotiva e di accettazione non giudicante nei confronti dei comportamenti degli altri.

Questo studio ha confermato le nostre ipotesi che la mindfulness agisca effettivamente attraverso meccanismi di regolazione emozionale anche nel contesto sociale. Appare quindi ancora più lampante quanto potrebbe essere utile e importante se coltivata da ciascuno di noi, non solo per un nostro benessere psicofisico individuale, ma anche per una migliore e più regolata interazione con gli altri. 

Ma in cosa consiste questa pratica? Nella sezione download (file pdf) viene proposta una versione semplificata, ma efficace, di esercizio mindfulness che il lettore può eseguire. L’esercizio si chiama “mindful breathing” o “consapevolezza del respiro”.