Piero del Pollaiolo, via Wikimedia Commons, Museo Poldi Pezzoli

Eventi

LE DAME DEI POLLAIOLO PER LA PRIMA VOLTA RIUNITE

La mostra "Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento" è al Museo Poldi Pezzoli di Milano dal 7 novembre 2014 al 16 febbraio 2015

7 novembre 2014
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Anna Fazion
di Anna Fazion
Studentessa dell’Università di Trento, collabora con la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Al Museo Poldi Pezzoli di Milano apre l’attesa mostra Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento, curata dal professor Aldo Galli insieme al conservatore del museo Andrea Di Lorenzo.
Ne parliamo con il professor Galli, docente di storia dell'arte moderna presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e autore, tra le altre opere, della monografia I Pollaiolo (2005). 

Professor Galli, come è nata l’idea di organizzare questa mostra tanto attesa?

L’idea di allestire a Milano una mostra interamente dedicata a due fiorentinissimi artisti del Rinascimento potrebbe apparire bizzarra se il Museo Poldi Pezzoli non custodisse un meraviglioso ritratto femminile che è al tempo stesso l’emblema di quella collezione e l’oggetto di un’accanita disputa attributiva tra i fratelli Antonio e Piero del Pollaiolo. Il progetto originario prevedeva semplicemente di riunire attorno all’opera milanese altri tre ritratti di giovani donne, oggi divisi tra Firenze, Berlino e New York, che condividono da più di un secolo la stessa vicenda critica e la stessa incertezza d’attribuzione della dama Poldi Pezzoli. Una volta ottenuti tutti e tre quei prestiti, il programma si è fatto però più ambizioso. La proposta di riferire i ritratti al più giovane dei fratelli, Piero, risulta infatti comprensibile solo alla luce di una complessiva rilettura delle personalità dei due artisti quattrocenteschi e di un riesame delle ragioni che hanno portato a confonderne le fisionomie. Insieme al conservatore del museo, Andrea Di Lorenzo (che cura la mostra insieme a me), e alla direttrice del Poldi Pezzoli, Annalisa Zanni, che fin dall’inizio si è spesa con un’energia e una competenza rivelatesi determinanti, abbiamo così raccolto una trentina di opere che compongono una vera esposizione monografica (la prima) sui due Pollaiolo.

Da studioso dei Pollaiolo, può spiegarci qual è il valore di avere le quattro dame per la prima volta riunite in un unico spazio espositivo?

È la domanda che occorrerebbe sempre porsi progettando una mostra. Spostare un dipinto, una scultura, un’oreficeria o un disegno eseguiti 450 anni fa, facendoli viaggiare, sottoponendoli a variazioni di temperatura, di clima, d’illuminazione, implica indubbiamente uno stress per le opere che il business delle mostre tende spesso a sottovalutare. Sono operazioni che si giustificano, credo, solo se l’occasione espositiva ha un autentico significato culturale, ovvero se diviene occasione di conoscenza per il pubblico e per gli studiosi. Nel nostro caso, l’accostamento dei quattro ritratti – da più di cent’anni oggetto di dispute e dispareri – consentirà a ciascuno di leggerli a confronto diretto, di constatarne affinità e divergenze: sarà un’occasione irripetibile di verifica, impossibile sulle riproduzioni. È sempre fondamentale ricordare, a tale proposito, che ogni opera d’arte è un esemplare unico, non riproducibile nella sua essenza e valutabile appieno solo sull’originale. Vedere le quattro dame fisicamente accostate su una stessa parete, sotto la stessa illuminazione, consentirà – spero – di sciogliere molti nodi relativi allo stile, alla tecnica, allo stato di conservazione, all’incidenza dei restauri e così via. 

L’occasione della mostra e gli studi che l’hanno preceduta hanno permesso di fare luce sulle personalità artistiche individuali dei due fratelli Pollaiolo?

Una delle ambizioni della mostra è proprio quella di distinguere le personalità dei due fratelli, mettendo drasticamente in discussione l’opinione corrente secondo cui Antonio (nato nel 1432) fu un artista geniale e poliedrico: orafo, scultore, incisore ma soprattutto grande pittore; Piero invece (di dieci anni più giovane), niente più che un collaboratore del fratello, un aiuto di bottega. Questa è l’immagine dei Pollaiolo trasmessa alla metà del Cinquecento da Giorgio Vasari nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori. L’autorevolezza di quelle pagine ha fino ad oggi messo in ombra la diversa realtà che emerge dai documenti d’archivio e dalle fonti letterarie più antiche, troppo a lungo trascurate o male interpretate. Che Antonio sia stato il più celebre e geniale dei due fratelli è fuori discussione, ma dipinse molto poco. Il suo genio si espresse innanzitutto nell’oreficeria e nella scultura, declinate in una straordinaria ricchezza di tecniche e materiali: bronzi e smalti, argenti e terrecotte, incisioni, stucchi e perfino un rarissimo crocifisso in sughero... Il vero pittore in famiglia fu invece Piero, al quale spetta la gran parte di quelle tavole che Vasari (seguito dalla critica moderna) ha fatto confluire nel catalogo del fratello maggiore. 
Per poter fare di Antonio del Pollaiolo un artista esemplare per i suoi lettori, a Vasari non bastava la sua incontrastata eccellenza di orafo e di modellatore; convinto che solo la nobilissima pittura possa garantire all’artefice una fama imperitura, il biografo scelse di convogliare nel suo catalogo anche quei quadri che le fonti e i documenti ci assicurano essere in realtà opera di suo fratello Piero. 

Quali altre opere esposte permettono di cogliere la ricchezza artistica della bottega dei Pollaiolo?

Più che di bottega dei Pollaiolo, occorrerebbe parlare di “botteghe”: Antonio infatti aveva la sua in via Vacchereccia, a due passi da piazza della Signoria, mentre l’atelier di Piero era non lontano dal Battistero. Ad illustrare come la grandezza di Antonio non risieda tanto nei dipinti (che eseguì in numero ridottissimo) quanto nelle oreficerie e nelle sculture, in mostra si vedranno opere come la grandiosa croce d’argento del Battistero di Firenze, alta quasi due metri e carica di statuette e smalti, il busto-ritratto in terracotta di un giovane in armatura da torneo, o la celebre e misteriosa incisione con una furibonda mischia tra dieci uomini nudi. Tra i pezzi meno noti al pubblico e che danno appieno la dimensione dello sperimentalismo tecnico di Antonio ne vorrei citare due, restaurati per l’occasione: lo scudo da parata prestato dal Louvre, su cui è modellata in stucco dorato la figura di Milone di Crotone, e l’inquietante crocifisso in sughero e gesso della chiesa di San Lorenzo a Firenze, un pezzo di incandescente temperatura espressiva, dove la figura s’inarca sulla croce mentre il volto è contratto da una tremenda smorfia d’agonia. Piero invece viene finalmente risarcito di una personalità autonoma e distinta, grazie a dipinti quali l’Apollo e Dafne della National Gallery di Londra o il David dei Musei di Berlino. Vi si rivela un pittore particolarmente incline al fascino della pittura fiamminga, dalle stesure smaltate, sature di colore, che imitano con straordinario virtuosismo la consistenza di un broccato, la lucentezza di una perla, la foschia violetta che si leva al tramonto dalle rive di un fiume.