Alain Supiot (in primo piano) e Giuseppe Nesi. Foto archivio Università di Trento.

Internazionale

LA DEMOCRAZIA NELL'EPOCA DELLA POST-VERITÀ

Intervista ad Alain Supiot, studioso del Collège de France e ospite dell’Università di Trento

19 marzo 2018
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di Marinella Daidone
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Una riflessione profonda sulle basi della democrazia sono state al centro della prima delle lezioni tenute da Alain Supiot alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento nell’ambito della Cattedra di Accoglienza del Collège de France.
Giurista, con forti interessi per la filosofia e l’antropologia, Alain Supiot si occupa di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e di teoria del diritto. Al Collège de France è titolare della cattedra “Stato sociale e mondializzazione: analisi giuridica delle solidarietà”. Ricordiamo inoltre che nel 2008 ha creato l’Istituto di studi avanzati di Nantes, mentre nel 2017 è stato nominato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro membro della Commissione globale sul Futuro del Lavoro.

Professor Supiot, quali sono elementi fondamentali che permettono l’istituzione di una democrazia? 
Nella storia delle democrazie, distinguerei due categorie di elementi, strettamente legate tra loro, una oggettiva e una soggettiva. Da una parte abbiamo le basi oggettive delle istituzioni pubbliche relative alla sfera politica, economica e morale-religiosa. Quindi, l’assemblea politica, che riguarda la sfera dell’interesse pubblico. Il mercato, relativo alla negoziazione di interessi privati, in modo che ognuno possa vivere del proprio lavoro. E, infine, la sfera morale-religiosa, relativa ai valori comuni e all’uguaglianza degli esseri umani, pensiamo ad esempio alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. A queste tre dimensioni corrispondono, sotto il profilo soggettivo, delle attese e delle esigenze da parte dei cittadini. 
Alla sfera politica corrisponde la necessità dell’educazione, in modo che ciascuno sia capace di distinguere l’interesse generale dal suo interesse particolare e possa far prevalere l’interesse generale nelle discussioni politiche. Alla sfera economica corrisponde la necessità di ciascuno di avere una posizione professionale che assicuri un lavoro dignitoso. La terza condizione suppone ciò che i greci chiamarono il “parlare vero”, ossia il coraggio di esprimersi nell’assemblea. In una democrazia queste condizioni soggettive si combinano con le condizioni istituzionali. 

Lei fa parte della Commissione globale sul Futuro del Lavoro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, ILO). Perché è importante il lavoro per l’essere umano e per la democrazia? 
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, creata nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale, è la più antica fra le organizzazioni internazionali, la sola ad essere sopravvissuta alla scomparsa della Società delle Nazioni e oggi membro del sistema delle istituzioni legate alle Nazioni Unite. Uno degli obiettivi dell’ILO è di promuovere ovunque un regime di lavoro realmente umano. Ciò che c’è di specifico nel lavoro umano è il poter mettere in opera le proprie capacità intellettive e immaginative per creare nel mondo reale qualcosa che non è ancora presente, ma che può diventarlo. In questo processo da una parte si scoprono gli ostacoli, le resistenze da parte della materia e dell’ambiente sociale, e dall’altra si mostra ciò di cui si è capaci e si scopre se stessi. È un processo di apprendimento della ragione, dove si confrontano le immagini mentali con il mondo reale, fisico e sociale. La mancanza di lavoro, pensiamo ad esempio ai giovani o ai migranti, rappresenta un problema grave e una sfida vitale. Oggi ci troviamo di fronte a questa duplice questione di assicurare a tutti un’occupazione e di fare in modo che si tratti di un lavoro veramente umano, che doni questa possibilità di espressione di sé nel reale. Questo non era il caso, ad esempio, del lavoro alla catena di montaggio che Charlie Chaplin descrive in “Tempi moderni”. Ciascuno dovrebbe poter vivere dignitosamente del proprio lavoro. Attualmente siamo lontani dalla realizzazione di questi obiettivi. L’ILO porta avanti una riflessione sulle condizioni giuridiche internazionali per incoraggiare gli sforzi di ciascun Paese e permettere a ogni uomo e a ogni donna di accedere al lavoro, di viverne e poi di ritirarsi, possibilmente, nel periodo della vecchiaia. Lo scopo perseguito dall’ILO è di giungere a un lavoro dignitoso per tutti. 

Lei ha parlato anche di destituzione della democrazia. La nostra democrazia è fragile? Qual è il pericolo che corriamo? 
Più che di un pericolo io parlerei di una “crisi” della democrazia, l’arrivo di ciò che Colin Crouch ha chiamato “post-democrazia” o ciò che la Costituzione cinese definisce “dittatura democratica”. Assistiamo a un cedimento della democrazia e allo stesso tempo a un’ascesa generale della figura dell’uomo o della donna forte, che coinvolge anche paesi come gli Stati Uniti che sono stati fra i luoghi d’origine della democrazia moderna. Questo processo ha alla base diversi fattori. Il primo è la crescita di un immaginario collettivo che crede in società gestite da esperti e basate sulla scienza (economica, informatica o di altro tipo). Le questioni importanti, che prima venivano dibattute democraticamente, vengono ora affidate a degli esperti. L’Unione Europea è un buon esempio di Istituzione che ha sottratto alla deliberazione democratica parti intere di ciò che prima faceva parte del dibattito democratico, specialmente la politica economica. Un secondo fattore è l’assimilazione della democrazia a una sorta di mercato delle idee. Come dicevo, per il corretto funzionamento di una democrazia servono tre istituzioni: l’assemblea parlamentare deliberante, il mercato e i “luoghi del vero”, ossia della religione e della morale. Oggi pensiamo che il mercato sia il paradigma che può regolare le questioni sia del politico che del religioso: vi sarebbe quindi un mercato elettorale e un mercato religioso. Secondo questa visione, le categorie del mercato vengono estese all’insieme della vita umana. Questo movimento, promosso da grandi economisti come Ronald Coase negli USA che hanno teorizzato il mercato delle idee, è stato consacrato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, che sopprime ogni limite alla possibilità per le potenze economiche di spendere denaro nelle campagne elettorali. Il dibattito politico è concepito allo stesso modo della pubblicità per acquisire parti di mercato. Di conseguenza questo porta a ciò che oggi chiamiamo la post-verità, ma che già tra i greci veniva chiamata demagogia: l’utilizzo della parola non per accordarsi sulla rappresentazione più corretta possibile riguardo agli affari della città, ma per catturare le masse in modo da esercitare un potere privato.

Mi sembra che nel suo pensiero sia rilevante l’etica della verità. Possiamo nella nostra società cercare o ritrovare un’etica della verità?
L’etica della verità sembra un concetto astratto, in realtà indica delle cose di cui ognuno di noi ha un’esperienza quasi quotidiana, ovvero di avere il coraggio di dire il vero, di dire ciò che si pensa essere vero e di confrontare in contesti pacifici e non violenti questa rappresentazione del vero con quella degli altri. È qualcosa di centrale nella pratica democratica se vogliamo ricordare che la verità nelle questioni umane non riguarda solo un sapere scientifico ma anche esperienze particolari che ciascuno di noi può avere della giustizia, dell’ingiustizia e di altre situazioni. Quello che serve sono strumenti democratici che canalizzino politicamente l’espressione di queste esperienze. Se questa canalizzazione non esiste vediamo riapparire i demagoghi perché, in mancanza di una rappresentazione nell’agorà democratica, queste esperienze trovano rifugio, diventano materia prima del discorso demagogico. È, ai miei occhi, l’ascesa della pretesa di una direzione puramente tecnica della società e del populismo - anche se preferisco il termine “demagogia” - sono i due volti di un medesimo fenomeno.