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CONTRASTO AL LAVORO INFANTILE E DECENT WORK

di Matteo Borzaga

9 maggio 2018
Versione stampabile

Dalla quarta di copertina.
Negli ultimi decenni la questione del contrasto al lavoro infantile ha assunto un’importanza crescente, soprattutto sul versante sovranazionale. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), del resto, l’ha inclusa tra i core labour standards e ne ha riconfermato la centralità pure nell’ambito delle sue politiche più recenti, legate al c.d. decent work. Anche l’Unione Europea (UE) si è occupata di tale questione, dedicandole alcuni strumenti lato sensu normativi nonché l’art. 32 della Carta dei Diritti Fondamentali.  Prendendo le mosse dalle più risalenti legislazioni nazionali, il presente volume si ripropone anzitutto di analizzare le Convenzioni emanate dall’OIL in materia, mettendo in luce come l’organizzazione si sia dapprima occupata prevalentemente di età minima di accesso al lavoro, per poi concentrarsi sulle peggiori forme di lavoro infantile, anche per tenere conto dei mutamenti innescati dalla globalizzazione e delle esigenze dei Paesi emergenti. A tale analisi segue quella relativa ai provvedimenti adottati dall’UE che – non solo per ragioni giuridico-culturali, ma anche in virtù di un sistema sanzionatorio assai più efficiente di quello dell’OIL (di cui pure si parla nella parte finale del volume) – rispondono invece a una logica «occidentocentrica», secondo la quale i bambini sarebbero titolari di un vero e proprio right not to work, collegato alla necessità di garantire loro un’istruzione adeguata. 

Matteo Borzaga è professore della Facoltà di Giurisprudenza e della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento.

Dall’introduzione (pp. XI-XIV)

Il tema del contrasto al lavoro infantile ha assunto negli ultimi due decenni un’importanza crescente, soprattutto (ma non soltanto) sul versante internazionale.
Il succedersi di fenomeni quali i processi di decolonizzazione e di globalizzazione, ma anche gli scandali che, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, si sono abbattuti su alcune multinazionali che avevano delocalizzato parte della propria produzione nei Paesi emergenti, hanno infatti indotto l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) a elaborare una nuova strategia, che potrebbe definirsi «politica delle priorità». Tale strategia è consistita da un lato nell’individuazione di taluni diritti sociali fondamentali (core labour standards) sui quali concentrare in modo particolare l’attenzione, nonché nel perseguimento dell’obiettivo di garantire a tutti condizioni di lavoro dignitoso (decent work) e dall’altro nella valorizzazione, in questo nuovo quadro, proprio degli strumenti normativi elaborati dall’organizzazione al fine di contrastare il lavoro infantile.
Si tratta, come si avrà modo di vedere nei primi due capitoli della presente monografia, di strumenti normativi che si sono significativamente evoluti nel tempo e che dimostrano assai bene come l’OIL si sia dovuta progressivamente adattare alle esigenze dei Paesi emergenti il cui massiccio ingresso nell’organizzazione ne ha modificato in modo sostanziale la membership, facendola precipitare in una crisi profonda e condizionandone le scelte, specie negli anni più recenti.
Alla Convenzione n. 138 del 1973 dedicata all’età minima di accesso al lavoro e fondata sull’idea – tipicamente «occidentocentrica» – secondo la quale i bambini sarebbero titolari di un vero e proprio right not to work, strettamente collegato alla necessità di garantire loro un’istruzione (obbligatoria) adeguata ed efficace, ha fatto così seguito, a oltre venticinque anni di distanza, la Convenzione n. 182 del 1999 relativa invece alle peggiori forme di lavoro infantile.
Una Convenzione, quest’ultima, che può senza dubbio ritenersi il prodotto più rilevante della già citata politica delle priorità: essa, infatti, nel concentrarsi non più sull’età minima di accesso al lavoro, bensì piuttosto sulle forme di lavoro infantile ritenute più esecrabili, dimostra chiaramente la volontà dell’OIL di assecondare le esigenze dei Paesi emergenti, per i quali il contrasto di queste ultime è senz’altro (anche culturalmente) condivisibile, mentre non lo è l’idea di vietare del tutto ai bambini di lavorare, neppure laddove costoro stiano assolvendo il proprio obbligo scolastico.
Ebbene, se è vero che i due suddetti strumenti normativi rispondono a logiche profondamente diverse (per non dire opposte) e sono dunque, oggi, difficilmente conciliabili (nonostante vengano entrambi ricondotti dall’OIL ai core labour standards) è altrettanto vero che, specialmente a seguito dell’adozione del secondo, la comunità internazionale ha riservato alla questione del contrasto al lavoro infantile – e in particolare delle sue forme peggiori – un’attenzione senza precedenti, come si evince dal fatto che un numero sempre più significativo di Paesi membri dell’OIL ha ritenuto di aderire alla Convenzione n. 138 del 1973, ma soprattutto che la Convenzione n. 182 del 1999 è stata la più ratificata tra quelle adottate dall’organizzazione in un arco di tempo decisamente breve (entrata in vigore nel 2000, ha ottenuto l’adesione di 181 Paesi membri su un totale di 187).
Sebbene, come verrà messo in luce nel Capitolo Quarto di questa monografia, la semplice ratifica delle Convenzioni OIL non sia in alcun modo sufficiente a garantirne anche la corretta attuazione, va peraltro sottolineato come essa costituisca il presupposto indispensabile di tale attuazione e come dunque un’adesione pressoché universale a uno strumento normativo adottato dall’organizzazione, come è accaduto proprio con riguardo alla Convenzione n. 182 del 1999, assuma importanza fondamentale.
Se a ciò si aggiunge che negli ultimi anni anche l’apparato sanzionatorio dell’OIL – e in particolare il suo sistema di monitoraggio – si è concentrato in misura crescente proprio sull’implementazione dei core labour standards e, tra questi, anche di quello relativo al contrasto al lavoro infantile, ci si rende conto ancora meglio di come la relativa questione sia a tal punto rilevante da meritare l’approfondimento che si è deciso di dedicarle nel prosieguo.
A ben vedere, tuttavia, il tema di cui si sta discutendo non appare rilevante soltanto sul versante internazionale, bensì anche su quelli eurounitario e nazionale.
Sotto il primo profilo va infatti rilevato che l’Unione Europea (UE) si è occupata della questione del contrasto al lavoro infantile fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, con una serie di documenti lato sensu normativi che sono poi sfociati nella direttiva n. 94/33/CE. Tali documenti normativi mettono chiaramente in luce come l’UE si sia sempre concentrata, in proposito, sull’età minima di accesso al lavoro che, se in origine si estrinsecava in un requisito meramente anagrafico, nel tempo è stata sempre più strettamente collegata all’adempimento dell’obbligo scolastico.
Come si avrà modo di dire nel Capitolo Terzo di questo studio, la produzione normativa dell’UE in materia di contrasto al lavoro infantile, in realtà, assume importanza non già soltanto di per sé, ma anche perché dimostra come l’UE stessa abbia sempre adottato, in linea del resto con le legislazioni dei propri Paesi membri, un approccio decisamente «occidentocentrico» al tema, fondato cioè sull’idea secondo la quale i bambini sarebbero titolari di un vero e proprio right not to work.
In altri termini, approfondire gli strumenti normativi adottati a livello eurounitario sul tema consente sia di fare il punto su un argomento che, se si esclude la manualistica, è stato assai poco studiato in dottrina, sia di comprendere meglio come l’OIL e l’UE, che originariamente si sono occupati della questione del contrasto al lavoro infantile in termini molto simili, abbiano progressivamente preso strade diverse, soprattutto per il fatto che l’OIL, al fine di tentare di superare la crisi che l’aveva colpita, ha dovuto iniziare a tenere conto delle esigenze dei Paesi emergenti, che come si diceva sono, per varie ragioni (anche culturali), contrari all’imposizione di un divieto assoluto di lavorare in capo ai bambini.
In merito poi alla rilevanza del tema a livello nazionale, va anzitutto messo in luce come, sebbene il nostro Paese conosca – lo si dirà approfonditamente nel corso del Capitolo Primo della presente monografia – una legislazione avanzata in materia fin dalle origini del diritto del lavoro, la globalizzazione economica e la conseguente interrelazione sempre più significativa tra i mercati gli hanno conferito nuova centralità.
Del resto, come dimostrano gli scandali cui si accennava in apertura, la circostanza che numerose multinazionali abbiano deciso di approfittare delle possibilità offerte loro proprio dalla globalizzazione e di delocalizzare, di conseguenza, parte della produzione nei Paesi emergenti ha determinato una sempre più significativa presenza di beni prodotti in tali Paesi sul mercato nazionale e la necessità di comprendere come tali prodotti vengano realizzati.
Sul punto, e sebbene le statistiche elaborate dall’OIL mettano in luce una progressiva diminuzione, specie negli ultimi anni, del ricorso al lavoro infantile a livello mondiale, i numerosi casi di violazione dei relativi standard giuslavoristici internazionali documentati dal sistema di monitoraggio dell’organizzazione – di cui si dirà dettagliatamente nel Capitolo Quarto di questa monografia – comprovano che il fenomeno è ancora molto diffuso e, anche alla luce degli effetti della globalizzazione cui si accennava poc’anzi, rendono un’analisi dettagliata di esso interessante pure per il giuslavorista italiano.
A ciò deve aggiungersi che – al di là di alcune pubblicazioni di carattere generale in materia di diritto internazionale del lavoro e di un volume che, seppure curato da studiosi italiani, è stato comunque pubblicato all’estero in lingua inglese – la questione del contrasto al lavoro infantile è stata assai poco studiata nel nostro Paese: una circostanza, quest’ultima, che a maggior ragione induce a occuparsene nel modo più accurato possibile nelle pagine che seguono.  

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Il presente volume è pubblicato anche in versione cartacea per i tipi di Editoriale Scientifica - Napoli, con ISBN 978-88-9391-260-0.