Facciata del Palazzo di Sociologia. Foto archivio Università di Trento

Eventi

GENERAZIONE SESSANTOTTO

Una riflessione a cinquant’anni di distanza. Intervista a Mario Diani

5 giugno 2018
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di Marinella Daidone
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Con Mario Diani, direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale, si apre anche su UNITRENTOMAG una riflessione sul Sessantotto che proseguirà nei prossimi mesi con i punti di vista di altri studiosi. In occasione del cinquantenario, il Dipartimento ospita una mostra promossa dalla Fondazione Museo storico del Trentino in collaborazione con l’Ateneo, curata da Michele Toss e Sara Zanatta, che rimarrà aperta fino al 15 dicembre.

Professor Diani, ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario del Sessantotto. Ha un significato particolare per il Dipartimento di Sociologia e per la città di Trento?
Direi di sì. Il Sessantotto è associato simbolicamente a una fase di trasformazione su scala globale iniziata negli anni ’50 e poi concretizzatasi negli anni ’60. Per la città di Trento in particolare ha corrisposto ad un passaggio molto rapido verso la modernità: da centro periferico e relativamente isolato si è trovata in mezzo a dinamiche di cambiamento complesse. La creazione della Facoltà di Sociologia ha rappresentato il punto di convergenza di due diverse istanze: da una parte il progetto di modernizzazione e consolidamento delle istituzioni democratiche (in particolare dell’autonomia) portato avanti da Bruno Kessler; dall’altro la cultura anti-autoritaria degli studenti che arrivavano a Trento da tutta Italia attirati da questa nuova disciplina. In un centro come Trento questo ha rappresentato un incontro forte, uno shock che per molti versi non è stato ancora digerito completamente e genera sentimenti contrastanti. Il Sessantotto è stato un evento fondamentale e definente per Sociologia e ha portato il nome dell’Università di Trento in giro per il mondo. Rappresenta tuttavia per altri versi un’eredità “pesante”. Non penso solo all’associazione tra le origini del terrorismo e la Facoltà di Sociologia, di continuo riproposta anche se non sta in piedi: Curcio fondò le Brigate Rosse dopo aver lasciato Trento e la sociologia è la negazione del fondamentalismo rappresentato dalla cultura e dalla pratica di quell’organizzazione. Mi riferisco anche al fatto che l’associazione di Sociologia con il Sessantotto porta a volte a dimenticare la quantità e qualità del lavoro scientifico condotto nei decenni successivi. Non c’è nessuna negazione del rapporto con il Sessantotto, ma è un rapporto che ha due facce e bisogna tenerne conto.

Il suo Dipartimento ospita la mostra “Generazione ’68. Sociologia, Trento, il mondo”. Ce ne può parlare?Quando la Fondazione Museo Storico ci ha proposto di ospitare questa mostra abbiamo accettato molto volentieri. È importante che si parli del Sessantotto come fa la mostra, ossia da un punto di vista multidimensionale. La mostra non ha nessuna pretesa di essere esaustiva dal punto di vista della documentazione, ma tocca diversi aspetti di quell’esperienza e ne richiama le possibili connessioni. Questo si riflette nella collocazione su tre piani dell’edificio, corrispondenti a tre temi principali. Il primo è il rapporto che negli anni ’60 c’è stato tra le trasformazioni che si stavano verificando in Trentino e la nascita di Sociologia. Il secondo è legato al fatto che il Sessantotto non è stato solo un momento di mobilitazione politica, ma ha coinciso con una serie di mutamenti negli stili di vita e nei modelli culturali, riflessi ad esempio nella musica, che è stata un elemento coesivo e integratore di quegli anni. Elementi che sono tutti presenti all’interno della mostra. Infine, la mostra guarda alla dimensione interazionale, ricordandoci come il Sessantotto sia stato uno dei primi fenomeni mondiali mediatizzati a livello globale. Nel far questo richiama anche le contraddizioni del periodo, per esempio quella di movimenti che si proclamavano fortemente anti-autoritari e allo stesso tempo mitizzavano figure non certo libertarie come Mao Zedong.

A suo parere, a mezzo secolo di distanza si riesce a essere obiettivi nel trattare questo periodo storico?
È possibile farlo, non sempre è facile e non sempre si vuole farlo. Lo scorso 15 maggio abbiamo presentato il documentario “68 Pop Revolution” del regista di origine trentina Aurelio Laino. Fra i principali testimoni appaiono due giornalisti che all’epoca erano al Secolo d’Italia, l’organo del Movimento Sociale Italiano, e quindi nettamente schierati a destra. I loro interventi sono estremamente equilibrati. È quindi possibile riflettere sul Sessantotto in maniera non strumentale, anche se spesso non accade perché viene usato come oggetto di polemica politica. Al Sessantotto è inoltre attribuita, senza grande fondamento, la responsabilità per il degrado della convivenza sociale, associando l’anti-autoritarismo dell’epoca allo scivolamento verso forme di relazione sociale sostanzialmente atomizzate e a volte anarchiche. Ci sono inoltre questioni estremamente rilevanti e ferite ancora aperte relative a quel periodo, come quelle delle stragi e del terrorismo che rendono difficile un giudizio equilibrato. Peraltro, analisi lucide e documentate su quel periodo sono state prodotte già da tempo; tra le più importanti vorrei citare quella di Sidney Tarrow sul ciclo di protesta tra il ’65 e il ’75 in Italia. Per inciso, il professor Tarrow è stato ospite del nostro Dipartimento nel 2017 dove ha tenuto il primo ciclo di lezioni dedicate a Mauro Rostagno. 

Come studioso di movimenti sociali, quali aspetti metterebbe in evidenza di quel periodo?
Il Sessantotto è stato uno di quei rari momenti in cui forme diverse di campagne politiche e di spinte di cambiamento si sono incontrate: quelle legate alle classi sociali, al conflitto industriale e alle dinamiche di decolonizzazione, alle attese democratiche nei paesi dell’Est, si pensi alla Primavera di Praga e alle proteste in Polonia; senza parlare dei movimenti per i diritti civili, per il rinnovamento ecclesiale, o le prime manifestazioni di quelli che sarebbero diventati i grandi movimenti degli anni ’70 e ’80, come il femminismo o l’ambientalismo. È stato uno dei rari momenti in cui tutte queste spinte si sono saldate attorno a obiettivi apparentemente condivisi. Critica all’autoritarismo ma anche rilevanza dell’intervento pubblico: questi sono stati i principali risultati della grande fase di crescita economica successiva alla ricostruzione post-bellica e al fatto che lo stato sociale era in espansione. Il saldarsi di diverse spinte sotto un ombrello ideologico sembrava essere condiviso e il collante era una visione, seppur con numerose varianti, del marxismo. Inoltre, nonostante la critica reciproca, c’è stato un rapporto abbastanza intenso tra i movimenti e i partiti che si tradusse anche, per quanto riguarda l’Italia, nella cooptazione di larga parte dei quadri dei movimenti di fine anni ’60 e inizio anni ’70 nei partiti, in particolare in quelli della sinistra. Questo si ritrova anche in altri paesi tra cui la Gran Bretagna: Jeremy Corbin ad esempio e altri leader laburisti si sono spesso formati nel periodo di mobilitazione degli anni ’60 e ’70.

Come è cambiata la nostra visione del mondo dopo il Sessantotto? Che eredità ha lasciato ai ragazzi di oggi?
Probabilmente i ragazzi di oggi – non solo loro per la verità – non percepiscono la portata delle riforme sociali di quel periodo (una per tutte, l’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale, formalizzata nel 1978 ma sull’onda della spinta riformatrice avviata nel decennio precedente). Né credo riescano a concepire il livello di rigidità, di controllo e di conformismo nei comportamenti individuali che esisteva negli anni ’60. Come già notavo, la fase di maggiore “effervescenza collettiva” si caratterizzò proprio per la critica dell’autoritarismo. È anche vero che dal ’69 in avanti le spinte individualiste lasciarono sempre più spazio a retoriche e pratiche politiche centrate sull’idea di responsabilità collettiva, una tendenza facilitata anche dal progressivo emergere di organizzazioni politiche della “nuova sinistra” di ispirazione più o meno leninista. Nel complesso però mi pare che l’eredità principale degli anni ’60 sia la riaffermazione dell’autonomia delle scelte individuali. Sarebbe interessante esplorare come una parte di questa eredità sia stata trasformata in chiave di neoliberismo negli anni successivi, spesso in esplicita opposizione all’idea di solidarietà collettiva che il Sessantotto aveva invece tentato di coniugare con la liberazione individuale.