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USCIRE DALL’EURO SI PUÒ? È AUSPICABILE?

Rischi, costi e vantaggi dell’eventuale uscita di un paese dall’Eurozona analizzati in un incontro presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo

13 marzo 2015
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Sandro Trento
Andrea Fracasso
di Andrea Fracasso e Sandro Trento
Andrea Fracasso è professore associato presso la Scuola di Studi Internazionali e il Dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo. Sandro Trento è professore ordinario presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo.

La crisi del debito sovrano, le politiche di austerità che ne sono seguite e la persistente bassa crescita in vari paesi della cosiddetta periferia dell’area euro hanno alimentato un acceso dibattito sull’opportunità e sulla fattibilità di un’uscita dall’euro. 
Va detto, innanzitutto, che il progetto originario di unificazione monetaria tra paesi così diversi per struttura, per istituzioni e per politiche seguite non è stato ben valutato e forse è stato un azzardo averlo messo in pratica senza prevedere una politica di bilancio federale e politiche di convergenza delle strutture economiche reali. 

L’uscita di un paese dall’euro appare, tuttavia, tecnicamente possibile. Essa comporterebbe costi e rischi molto elevati, soprattutto durante il periodo di transizione. Quali e quanti benefici potrebbero derivare dall’uscita dall’euro, invece, è oggetto di discussione e disaccordo. Secondo i sostenitori dell’uscita, i vantaggi sarebbero il recupero della sovranità monetaria, e quindi di una maggiore flessibilità nell’uso del tasso di cambio e della politica monetaria, e l’abbandono dei vincoli di bilancio imposti dal Patto di Stabilità e di Crescita (PSC); va precisato che in verità l’obbligo di un pareggio di bilancio strutturale è ora scritto nella nostra Costituzione. 

Non è detto che tali vantaggi possano realizzarsi. La svalutazione del cambio di un paese uscito dall’euro potrebbe non essere sufficiente a rilanciare, in via duratura, la crescita, come mostrato dall’esperienza italiana tra il 1972 e il 1992. L’aumento dell’inflazione che seguirebbe una svalutazione o le politiche restrittive che verrebbero adottate per contenerla colpirebbero negativamente i redditi e la domanda interni. Inoltre, se più paesi decidessero di uscire crescerebbe il rischio di una guerra di svalutazioni competitive. 

Le autorità pubbliche sarebbero certamente liberate dai vincoli del Patto di Stabilità, ma continuerebbero a essere esposte ai problemi di finanziare il disavanzo di bilancio e di rifinanziare il debito esistente. È plausibile che l’uscita dall’euro comporterebbe un aumento dei tassi di interesse e questo farebbe crescere l’onere sul debito che il paese dovrebbe pagare ogni anno. Qualcuno ritiene, in realtà, che uscire dall’euro ha senso se davvero si intende ripudiare il debito pubblico e questo ridurrebbe, in effetti, la spesa per interessi. Ma è chiaro che un default sul debito renderebbe molto più difficile e costoso il finanziamento del nuovo disavanzo sul mercato e quindi limiterebbe la politica di bilancio.

Nessun investitore straniero sarebbe disposto, per vari anni, ad acquistare titoli di un paese che ha ripudiato il proprio debito; lo stesso farebbero anche moltissimi risparmiatori nazionali. Il default sul debito avrebbe poi pesanti effetti redistributivi a danno di piccoli risparmiatori, fondi istituzionali e istituti creditizi. L’eventuale monetizzazione del debito pubblico da parte di una nuova banca centrale nazionale porterebbe nel medio termine a un’inflazione elevata, una distorsione dei meccanismi di allocazione di risorse e minore incentivi di mercato a garantire moderazione nella gestione della spesa pubblica.

I paesi entrati nell’area euro sapevano che avrebbero perso l’autonomia monetaria e ridotto quella di bilancio. Questo sacrificio era però ritenuto parziale perché le autorità nazionali non erano mai state pienamente libere di manovrare il tasso di cambio (e semmai erano state vittime di attacchi speculativi) e non erano riuscite a utilizzare in modo appropriato la leva della spesa pubblica, nemmeno prima dell’introduzione dell’euro. Un sacrificio parziale, quindi, in cambio del quale i paesi che hanno adottato l’euro hanno potuto beneficiare di una maggiore integrazione con i partner europei e di bassi tassi di interesse sui debiti sovrani. Vantaggi di cui non si è forse fatto buon uso in molti paesi, ma che scomparirebbero immediatamente in caso di uscita.

Siamo bloccati nell’area euro? Siamo in realtà bloccati nei problemi che hanno impedito la crescita della produttività e del reddito e il recupero di credibilità e attrattività internazionale. L’uscita dall’euro non favorirebbe la convergenza e lascerebbe immutati i problemi di strutturali dei paesi che uscissero. Risolvere i problemi interni è cruciale per un’uscita di successo. Ma se fossimo capaci di risolvere tali problemi perché uscire?

Il 10 marzo scorso il Dipartimento di Economia e Management (DEM) dell’Ateneo ha ospitato il professor Giorgio Rodano dell’Università La Sapienza di Roma che ha tenuto un seminario intitolato “Uscire dall'euro si può? È auspicabile?”. A discutere su questo tema insieme al relatore sono intervenuti i professori Sandro Trento e Andrea Fracasso dell’Università di Trento. L’incontro è stato seguito con interesse da un numeroso pubblico.