Genitore e piccolo di Marmoset. 

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GLI ANIMALI SOCIALI

Come le predisposizioni genetiche e i comportamenti dei genitori influiscono sullo sviluppo dell’individuo

29 ottobre 2018
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Anna Truzzi
di Anna Truzzi
Dottoranda presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento.

La capacità di interagire con gli altri, il risultato delle cosiddette “abilità sociali”, è fondamentale per l’essere umano. L’uomo è un animale sociale, scriveva Aristotele, e aveva ragione. Un bambino alla nascita non è capace di provvedere ai suoi bisogni o alla sua sicurezza e la sua sopravvivenza diviene quindi possibile solo grazie all’interazione con i genitori. Similmente, da adulti abbiamo la possibilità di sopravvivere, creare società complesse e progresso scientifico o culturale grazie alla cooperazione tra pari, cioè grazie all’interazione con gli altri. Le abilità sociali sono così fondamentali da essere per la maggior parte automatiche, fuori dal controllo cosciente

Ricercatori in psicologia, neuroscienze e biologia hanno dimostrato che queste importanti capacità sociali sono in parte imparate tramite l’esperienza e in parte determinate dalle predisposizioni genetiche di ogni individuo. Durante il dottorato di ricerca ho cercato di capire in che misura lo sviluppo delle abilità sociali sia influenzato, da un lato, dalle predisposizioni genetiche individuali e, dall’altro, dai comportamenti dei genitori verso i propri figli nei primi anni di vita.

Il comportamento dei genitori infatti è basilare per lo sviluppo di ogni individuo. Contrariamente a quello che si pensava fino a circa metà del XX secolo, il contributo genitoriale non riguarda soltanto i bisogni fisici del bambino, ma comprende anche i bisogni psicologici di sicurezza e prossimità. I primi esperimenti a dimostrarlo sono stati svolti da Harry Harlow, il quale separò scimmie appena nate dalle madri dando a disposizione due manichini, chiamati madri surrogate. Un manichino forniva latte e aveva la struttura di ferro esposta, mentre il secondo non forniva nessun nutrimento ma era riscaldato e la struttura di ferro era coperta con una pelliccia. I cuccioli sceglievano di stare aggrappati al secondo manichino, caldo e coperto, visitando quello che  procurava loro il latte solo brevemente quando avevano fame. 

In contemporanea agli esperimenti di Harlow, John Bowlby ideò la Teoria dell’attaccamento, con la quale sosteneva che le diverse modalità con cui i genitori rispondono ai bisogni fisici e psicologici dei bambini piccoli, forniscono ai bambini un modello di interazione sociale che verrebbe poi usato per interpretare tutte le interazioni future. Se i genitori rispondono prontamente e adeguatamente ai bisogni del bambino, quest’ultimo formerà il modello di un’interazione sicura con poca incertezza in cui i suoi bisogni sono soddisfatti. Consideriamo come esempio un bambino che gioca al parco. Se la mamma resta nel suo campo visivo o a portata di voce, il bambino sa di essere al sicuro perché non è solo e quindi comincia ad esplorare l’ambiente allontanandosi sempre di più per giocare. Se, al contrario, i genitori non soddisfano quasi mai i bisogni del bambino o rispondono in modo discontinuo, il bambino formerà il modello di un’interazione insicura o ambigua e ansiosa. In questo caso se, mentre il bambino gioca al parco, la mamma si allontana uscendo dal suo campo visivo e non ricompare per lungo tempo, anche se il bambino comincia a piangere, il bambino stesso si sentirà ansioso e insicuro e invece di esplorare il parco starà sempre più vicino alla mamma per paura di non vederla più.
Nella prima parte del mio progetto ho studiato i comportamenti di un tipo di primate non umano, i marmoset, la cui struttura sociale è organizzata in famiglie nelle quali tutti i componenti si occupano di crescere i nuovi nati. Abbiamo riscontrato similitudini tra i comportamenti dei cuccioli verso i genitori e le interazioni genitore-figlio negli esseri umani e abbiamo così ipotizzato che un adattamento della Teoria dell’attaccamento di Bowlby potrebbe essere applicabile anche a questi primati non-umani. Ci siamo quindi chiesti che ruolo hanno le predisposizioni genetiche in questo quadro.
 
Recentemente si sono trovate evidenze sperimentali a supporto del concetto di “plasticity genes” (geni della plasticità), secondo il quale alcune caratteristiche genetiche non modulano in modo diretto la nostra risposta all’ambiente, ma influiscono sulla nostra sensibilità all’ambiente circostante. Quindi individui meno sensibili all’ambiente si svilupperebbero in un determinato modo a prescindere dalle esperienze vissute, mentre individui più sensibili all’ambiente si svilupperebbero in modo meno adeguato se esposti a un ambiente negativo e in modo più adeguato se esposti a un ambiente positivo. Quindi individui più sensibili se esposti a genitori molto adeguati cresceranno probabilmente molto sicuri nelle relazioni, mentre al contrario gli stessi individui esposti a genitori meno adeguati avrebbero più probabilità di sviluppare ansia e insicurezza all’interno delle relazioni sociali. Individui poco sensibili all’ambiente invece avrebbero uno sviluppo medio a prescindere dal tipo di comportamento dei genitori. Abbiamo quindi ipotizzato che le predisposizioni genetiche piuttosto che modificare i comportamenti diretti tra figli e genitori modifichino la sensibilità dei figli a questi comportamenti. In particolare la nostra ipotesi proponeva che il punto d’incontro tra le componenti genetiche e ambientali fosse rappresentata dalle risposte fisiologiche, cioè dagli stati interni del corpo gestiti dal sistema nervoso come il battito cardiaco, la temperatura corporea o l’attività cerebrale. Nella seconda parte del mio progetto, infatti, ho testato come alcune componenti genetiche coinvolte nelle creazione di legami affettivi e sociali vanno ad interagire con l’esperienza che gli individui hanno dei comportamenti dei loro genitori durante l’infanzia nell’influenzare risposte fisiologiche degli adulti a stimoli importanti nelle interazioni sociali, in questo caso pianti. I risultati degli esperimenti sono in linea con la nostra ipotesi iniziale. 

Per concludere quindi sappiamo che i comportamenti dei genitori giocano un ruolo importante nel determinare come i figli si comportano con i genitori nella prima infanzia, determinando quindi se il bambino al parco si allontanerà per esplorare o se starà molto vicino al genitori. Ma l’effetto a lungo termine che i comportamenti dei genitori hanno sullo sviluppo successivo è moderato dalle predisposizioni genetiche di ogni individuo che determinano quanto essi siano sensibili all’ambiente esterno.