Immagine tratta dalla locandina dell'evento

Formazione

LE CULTURE DELLA VIOLENZA DI MASSA

Alan Kramer del Trinity College di Dublino ospite del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Ateneo per il ciclo “La Grande Guerra”

22 aprile 2015
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Francesco Frizzera
di Francesco Frizzera
Dottorando in Studi umanistici dell’Università di Trento.

In occasione del centenario della Grande Guerra il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento ha proposto il ciclo di conferenze “La Grande Guerra. Storia e storie”. All’interno di questo ciclo, lo scorso 8 aprile Alan Kramer, professore al Trinity College di Dublino, ha presentato l’intervento “Le pratiche e le culture della violenza di massa”.

Il professor Kramer, che si è occupato a lungo della Prima guerra mondiale in prospettiva comparata, tra i suoi interessi ha dedicato particolare attenzione alle dinamiche culturali e transnazionali del conflitto. Questo approccio fa di lui uno dei massimi esperti dell’argomento, soprattutto in relazione alla cultura della violenza di massa. Tra le sue pubblicazioni sul tema sono da segnalare i due volumi “Dynamic of Destruction. Culture and Mass Killing in the First World War” (Oxford: Oxford University Press, 2007) e “German Atrocities, 1914. A History of Denial” (New Haven/London: Yale University Press, 2001).

La tesi di Kramer è che ci sia un legame tra distruzioni, cultura e violenza di massa, fenomeni che si intersecano in maniera ben riconoscibile a partire dal primo conflitto mondiale e che segneranno, con evidenti parallelismi in diversi casi nazionali, la cultura europea fino al 1945. La violenza contro i civili e la demonizzazione del nemico non sarebbero il semplice frutto della guerra tecnologica, ma l’effetto delle guerra tra culture.
Infatti, il comportamento dei soldati e le paure dei civili affondano le radici nella cultura di appartenenza e nei pregiudizi culturali alimentati dalla propaganda. Ne consegue che, a partire dalle guerre balcaniche e con maggiore intensità durante il conflitto mondiale, la guerra diventa scontro di culture e pertanto non si imita alla cosiddetta Kabinettskrieg – ovvero al semplice sconto fra eserciti professionali ‒ ma diventa guerra totale: l’obiettivo è l’annientamento dell’intera nazione nemica e della sua cultura. 

Ciò determina, secondo l’autore, una svolta storica nella natura del conflitto, ben riconoscibile in tutti gli Stati belligeranti. La mobilitazione degli intellettuali a favore della guerra può dirsi universale; questa mobilitazione culturale colpisce poi gli ufficiali e il messaggio dello scontro tra culture diviene evidente in particolare nelle accezioni tedesche e francesi di Kultur e civilisation. I soldati si lasciano perciò andare a violenze anche contro i simboli culturali (emblematico il rogo della biblioteca universitaria di Lovanio) e la dinamica distruttiva, anziché essere limitata ai combattenti, viene applicata ai civili. Il caso dei franchi tiratori belgi e francesi e delle conseguenti uccisioni di civili da parte di truppe tedesche nei due Stati mostra con chiarezza questo clima esasperato, in cui anche i civili, rappresentanti di una cultura nemica, possono diventare bersagli di guerra.

Secondo Kramer, la dinamica di distruzione legata all’annientamento culturale del nemico porta, a un’escalation della violenza. Il blocco navale imposto agli Imperi centrali è funzionale a questa dinamica distruttiva; lo sono parimenti lo sfruttamento spietato dei territori occupati, lo sfruttamento coatto della manodopera belga e francese e la distruzione culturale degli spazi fisici e mentali. La guerra è diventata un conflitto ideologico: l’obiettivo non sono più solo i nemici militari ma i simboli stessi, al punto che questa forma di violenza porta con sé tutte le potenzialità della guerra genocida.
Questa trasformazione del concetto di violenza, che esce dal campo militare e abbraccia simboli e culture, sarebbe pertanto la grande novità del primo conflitto mondiale, segnando in tal modo l’inizio di un’era catastrofica destinata a durare fino al 1945.