Roberto Casati durante la sua prolusione. Foto archivio Università di Trento.

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LA FILOSOFIA DEL PERDERSI E DEL RITROVARSI

Intervista al filosofo Roberto Casati, ospite all'inaugurazione dell'anno accademico

22 novembre 2018
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Mattia Lugarà
di Mattia Lugarà
Studente del corso di laurea in Filosofia dell’Università di Trento, collabora con la redazione di UNITRENTOMAG.

Lo scorso 14 novembre si è tenuta presso l’Auditorium di Palazzo Paolo Prodi dell’Università di Trento l’inaugurazione dell’anno accademico 2018/2019. Tra gli ospiti il filosofo italiano Roberto Casati, direttore di ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique dell'Institut Nicod dell’École Normale Supérieure di Parigi, il quale ci ha rilasciato un’intervista prima della sua prolusione sul tema: “Il disorientamento: la scienza e la filosofia del perdersi e del ritrovare la strada”.

Professor Casati, le sarebbe possibile introdurre brevemente la lezione che terrà?

Il disorientamento è un tema per me molto interessante, da un lato per lo studio della mente umana in situazioni ecologiche, per esempio durante la navigazione, oppure a contatto con la natura; diciamo che mi metto in determinate situazioni e osservo ciò che accade. Questo è qualcosa di diverso da quello che fanno gli psicologi, e anche da quello che fanno i filosofi; i filosofi parlano della natura, gli psicologi fanno esperimenti, a me interessa la dimensione esperienziale. Per esempio, ho portato i miei studenti in determinate situazioni, come nella metrò di Parigi o nella foresta di Fontainbleau, li ho disorientati e ho chiesto loro di vivere quest’esperienza fino in fondo. Tuttavia il disorientamento mi interessa anche sotto un altro punto di vista, ovvero quello degli artefatti cognitivi, come la scrittura, le mappe, la notazione musicale, i righelli, gli smartphone, i gps. E quindi nella lezione cerco di dare uno strumento concettuale, una specie di road map dei modi in cui la mente umana si può orientare. Questi modi sono quattro. Un modo spontaneo, che è quello che mi permette di ritrovare la strada all’interno di un edificio dopo che sono entrato: non mi metto a guardare la mappa, oppure a utilizzare un gps, perché il cervello lo fa per me. Un modo che richiede una riflessione: se lei mi dovesse spiegare come andare in Rettorato, dovrei occupare la mia memoria di lavoro, avrei bisogno di ricostruire il percorso mentalmente; e pure lei, anche se ormai lo fa in automatico, nel caso dovesse spiegarlo a qualcuno ci deve pensare. Questi modi che presuppongono un’esplorazione dell’ambiente, diventano insufficienti quando si ha a che fare con ambienti inesplorati, a questo punto si deve fare altro, si devono usare degli strumenti. Questi strumenti sono di due tipi: i primi sono quelli che richiedono di essere continuamente in contatto visivo con l’ambiente e i secondi sono per esempio il navigatore gps, il quale sostanzialmente fa tutto per te, come un tassista che ti prende e ti porta. La differenza fondamentale è tra chi fa i calcoli di navigazione; noi li possiamo fare soltanto se abbiamo una percezione dell’ambiente, mentre utilizzare un gps ci estranea dall’ambiente, perché non abbiamo bisogno di essere in contatto con esso. A me interessa studiare anche questa dialettica e capire cosa vuol dire essere in delega rispetto ad un apparecchio tecnologico.

Molti studi vengono pubblicati in questi ultimi anni proprio sul rapporto tra cervello e strumenti tecnologici. Se lei dovesse inserirsi all’interno di questa corrente, quale sarebbe la sua posizione?

Io lavoro a un livello abbastanza astratto, cioè a me interessa capire cosa fanno questi oggetti una volta che sono inseriti nel circuito della percezione, del linguaggio e del pensiero. Le faccio un esempio molto semplice: quando deve cercare una parola all’interno di un volantino, ad esempio la parola “possibilità”, deve leggerselo tutto; però se io gliela sottolineo o la evidenzio in giallo, questa parola salta agli occhi. Allora evidenziare che cos’è? È spostare una parte del compito di ricerca da una parte del cervello, il cervello lettore, seriale, che utilizza la memoria di lavoro, a un’altra, che è il cervello visivo, che ha moltissime risorse per estrarre immediatamente un colore diverso da una zona di colore neutro. E questo è quello che fanno tipicamente gli artefatti tecnologici, prendono in carica una parte di lavoro cognitivo. Questo accade per esempio con il gps, o con la calcolatrice: in quei casi è ovvio che abbiamo delle estensioni esterne, e che noi non stiamo facendo niente dal punto di vista cognitivo. In altri casi, invece, come con le mappe o con la notazione musicale, stiamo spostando compiti da una parte del cervello a un’altra. Il lavoro degli artefatti cognitivi è tipicamente modulare queste nostre architetture; e a me interessa descrivere questo tipo di relazione. C’è stata una lunga discussione per vent’anni sulla “mente estesa”, che forse ci ha un po’ distratti dal tema - quello di capire quali sono le computazioni che stiamo facendo -, su come si possono tradurre questi “pezzi” di mente fuori di noi, però non si capisce bene il loro vero lavoro. Sì, è suggestiva la cosa, ma poi come effettivamente noi usiamo un quaderno, una cartina? Per quanto riguarda questi studi, c’è ancora molta strada da fare.

Considera efficace il connubio tra filosofia e psicologia?
Sono un filosofo delle scienze cognitive, e dirigo un laboratorio che è all’interfaccia tra scienze sociali, filosofia e scienze cognitive. Il tipo di lavoro che facciamo noi, assomiglia al tipo di lavoro che fanno i fisici teorici rispetto a quello che fanno i fisici sperimentali: i fisici teorici utilizzano strumenti che sono formali, strumenti matematici; il matematico non è uno scienziato, è un matematico, non fa scienze esatte, fa matematica. All’interno delle scienze cognitive è molto utile avere quel punto di vista astratto che ha un certo tipo di filosofia su dei problemi, su dei fenomeni e su delle categorie che sono quelle che poi interessano gli psicologi, ovvero categorie della vita mentale, del comportamento (degli animali e degli esseri umani in particolare). Quindi il rapporto tra filosofia e scienze cognitive è un rapporto molto antico: molti psicologi sono nati come psicologi nell’Ottocento, molti filosofi facevano psicologia prima che la psicologia esistesse: da Cartesio a Locke. Il grande programma di ricerca su cui funziona praticamente tutta la psicologia contemporanea, che è il paradigma rappresentazionale/computazionale, è un programma che è stato messo a punto da un gruppo di filosofi, psicologi, linguisti, come Chomsky, Fodor, Putnam. Ognuno con idee diverse, naturalmente. Però, se si sa qualcosa oggi di come far funzionare una ricerca in psicologia, lo si sa anche perché tutti noi condividiamo questo paradigma, cioè che il cervello è una macchina che trae informazioni, crea rappresentazioni dell’ambiente, manipola queste rappresentazioni per crearne altre che poi danno luogo all’azione umana, danno luogo alla possibilità dell’azione, come l’azione linguistica, l’azione argomentativa, cioè quella possibilità di snidare gli errori negli altri.

Prendendo in considerazione quello che ha detto, se la sentirebbe di dire che in questo periodo ci siamo persi, metaforicamente parlando?

Certo, questo accade continuamente, è un po’ la natura umana, quella cioè di continuare a trovare situazioni stimolanti al limite delle proprie possibilità. Siamo sempre alla frontiera della conoscenza, perché conosciamo sempre di più e questa frontiera continua ad allargarsi e al di là ci son sempre nuove cose; questo è il fatto straordinario della conoscenza. Scopriamo dei modi di vedere ciò che prima non vedevamo, e a questo scopo dobbiamo inventare nuovi strumenti. In poche parole: dobbiamo continuamente orientarci.