Alessandro Preziosi durante lo spettacolo teatrale. ©FrancescaFago

Eventi

L’odore assordante del bianco

La vicenda psichiatrica di Vincent Van Gogh nello spettacolo teatrale diretto da Alessandro Maggi

22 febbraio 2019
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di Denis Viva
Ricercatore presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

Leonardo, Michelangelo, Caravaggio. Per essere ammesso nella galleria degli artisti più celebri di tutti i tempi a Vincent Van Gogh è bastato un tempo davvero breve: una decina d’anni di apprendistato e appena tre nei quali dipinse quasi tutti i suoi capolavori più noti. Altro mezzo secolo, pressappoco, servì alla critica e alla storiografia per consacrarlo. Tanto fu discriminato in vita, quanto ampio fu il suo riconoscimento postumo. Icona dell’artista geniale e incompreso, nel Novecento a Van Gogh sono stati dedicati film, romanzi, documentari e, soprattutto, innumerevoli esposizioni – con buona pace di Antonin Artaud che ai suoi tempi (gli anni Quaranta) poteva ancora affermare che qualsiasi mostra dell’olandese fosse “una data nella storia”. È impossibile anche solo orientarsi in questa sterminata – e risarcitoria – fortuna. Tuttavia, si possono individuare almeno due filoni con cui Van Gogh è stato mitizzato, reso leggenda ed emblema: quello che lo ha voluto un genio eccentrico e ispirato; e quello che lo ha visto come la vittima di una psichiatria disumana. Uno vi ha riconosciuto il destino dell’artista che precorre la propria epoca: isolato, a tratti invasato, Van Gogh è disposto al sacrificio estremo in nome dell’arte. La sua vita, insomma, è inscindibile dalla sua opera. L’altro si è concentrato – talvolta in modo morboso – sulla vicenda umana e psichiatrica. In questo caso, l’invidia e l’ingiustizia sono stati i veri moventi dei suoi (falsi) terapeuti. Van Gogh è divenuto, qui, l’incarnazione di chi ha patito l’indicibile, quella cura che ha spesso confinato con la tortura nella psichiatria prima di Freud e, soprattutto, prima di Basaglia.

Per chi volesse conoscerli questi due Van Gogh, simili e differenti, oggi ci sarebbero due buoni esempi. Alla prima tipologia apparterrebbe un film come quello di Julian Schnabel, nelle sale in queste settimane. Lì Van Gogh è davvero la quintessenza del pittore en plein air (dipinge quasi sempre all’aperto e nella natura scorge solo colori). Alla seconda tipologia appartiene, al contrario, la pièce Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco, al Teatro Sociale di Trento dal 7 al 10 febbraio. Autore Stefano Massini (Premio Tondelli 2005), regia di Alessandro Maggi, l’attore protagonista è Alessandro Preziosi. In questo spettacolo, al contrario, Van Gogh non dipinge mai. L’opera è ambientata nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy de Provence, dove l’artista realizzò la più celebre versione della Notte stellata, ma nella sua stanza si svolge soltanto uno fitto dialogo col fratello Theo e con l’equipe medica. Van Gogh – non è un dettaglio di poco conto – pare si fosse fatto ricoverare volontariamente in questa clinica, giungendo nel maggio del 1889 (qualche mese dopo le traversie con Gauguin) per essere dimesso un anno dopo. In questo arco di tempo, egli scrisse poche lettere al fratello, le quali sono ovviamente alla base della sceneggiatura. Solo che Massini, negli ondivaghi umori che traspaiono da quelle lettere, ha scelto il Van Gogh più inquieto e recalcitrante, quello che rifiuta i trattamenti velleitari della psichiatria dell’epoca e cerca in ogni modo di fuggire da quella prigione medica. È un Van Gogh dietro al quale si sente molto, sia nella scrittura sia nell’interpretazione di Preziosi, il libro dedicatogli da Antonin Artaud (Van Gogh. Il suicidato della società). L’artista inveisce, rigetta il paternalismo di chi lo circonda, sussulta e ribolle in una corporeità agitata e, ogni tanto, sardonica.

Tutto lo spettacolo, insomma, è una condanna affranta e sarcastica del sistema clinico di quell’epoca, con un monito che sembra indirizzato all’oggi. Ogni ambientazione storica è, infatti, stemperata da una scenografia (di Marta Crisolini Malatesta) riuscita e dal candore allucinatorio, dove Van Gogh si dibatte e si placa, in un modo tanto viscerale quanto disincantato. In questo spazio recluso, compaiono due figure di dottori, una reale e una d’invenzione, che sono un po’ la chiave dello spettacolo. La prima è il comprensivo dottor Peyron, che quasi preannuncia l’avvento della psicanalisi freudiana. La seconda è il dottor Lazare, un personaggio un po’ appiattito, ma di profonda simbolicità. La sua frustrazione è la frustrazione di un’intera epoca davanti all’irregolarità di Van Gogh. Da un lato, egli è un caporeparto che applica pedissequamente le credenze scientifiche del proprio tempo e, per questa ragione, ottiene ben poco: si spazientisce presto e attribuisce ai pazienti le colpe dell’inconcludenza delle sue terapie. Col risultato, ovvio, di ottenere solo un effetto: recludere. Dall’altro egli è un pittore dilettante che crede di poter convertirsi in un artista rispettando delle regole compositive – e non mancando di fornire a Van Gogh dei consigli sulla “buona pittura”.  In entrambi i casi, il dottor Lazare è l’allegoria di un secolo, l’Ottocento, che è qui rappresentato nelle sue ferme convinzioni, nel suo paternalismo normativo che scopre la propria, inaccettabile, inefficacia al confronto coi margini della società. 

Lo scorso 8 febbraio, nell’ambito del ciclo i Foyer della prosa, si è svolto un incontro di approfondimento sullo spettacolo "Vincent Van Gogh. L'odore assordante del bianco". Il pubblico ha potuto confrontarsi direttamente con gli attori protagonisti dello spettacolo. Ha coordinato l’incontro il dottor Denis Viva. I Foyer della prosa sono frutto della collaborazione tra Università di Trento - Dipartimento di Lettere e Filosofia - e Centro Servizi Culturali Santa Chiara.