Il forte tolemaico di Bi’r Samut in corso di scavo 2014-2015 (foto JP. Brun)

Formazione

LE VIE CAROVANIERE DEI ROMANI NEL DESERTO EGIZIANO

L’Università di Trento ospita l’archeologo Jean-Pierre Brun del Collège de France

16 luglio 2015
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Marinella Daidone
di Marinella Daidone
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

L’archeologia affascina anche i non addetti ai lavori. Legata alle nostre radici, alla nostra storia, alla scoperta di civiltà, all’arte e resa ancora più celebre dal cinema e oggi, purtroppo, spesso presente nei notiziari per le devastazioni dei terroristi ai siti archeologici.
Gli studenti dell’Università di Trento hanno avuto nei mesi scorsi l’opportunità di seguire alcune lezioni dello studioso e archeologo di grande esperienza Jean-Pierre Brun del Collège de France.
Invitato dai colleghi Mariette de Vos Raaijmakers e Stefano Camporeale nell’ambito della Cattedra di accoglienza che l’Università di Trento ha attivato con il Collège de France, il professor Brun ha tenuto in Ateneo alcune lezioni su “Le vie carovaniere nel deserto orientale di Egitto e il commercio con l’Arabia e l’India in epoca romana”. Jean-Pierre Brun ha soggiornato per molti anni anche in Italia, dal 2000 al 2011, dove ha diretto il Centre Jean Bérard di Napoli.

Professor Brun, a Trento ha parlato delle ricerche nel deserto egiziano tra Nilo e Mar Rosso, ci può parlare del suo lavoro? È durato molti anni? Ormai nell’immaginario collettivo l’archeologo è un po’ Indiana Jones...

Questa ricerca è durata più di 25 anni. Il nostro lavoro è po’ avventuroso, andiamo nel deserto con le tende e ogni anno ci restiamo per un periodo di un mese o di 5 settimane. Facciamo scavi insieme a una squadra di operai, cominciamo alle 6 di mattina e lavoriamo fino alle 13.30, quando gli operai si riposano e noi studiamo i materiali. Non possiamo portare in Europa la ceramica, le ossa, gli ostraka (pezzi di ceramica, di vasi o contenitori rotti con testi scritti), quindi li dobbiamo studiare sul posto. Le nostre giornate di lavoro durano 15-16 ore.

È un gruppo di lavoro molto numeroso?

Non è un gruppo molto ampio anche perché non è semplice trovare i finanziamenti. Di solito siamo un’équipe di 6-7 persone, perlopiù francesi, con il supporto di 20-30 operai. 

Lei ha studiato le strade che congiungevano al tempo dei Romani il Mar Rosso e il Nilo, dove sono stati scoperti molti forti. Le discariche dei forti sono una fonte preziosa per conoscere la storia?

Sono importanti sia i forti stessi che le discariche, non li possiamo separare. I forti sono il punto d’appoggio dell’esercito e di controllo del traffico; si tratta di capire come sono posizionati all’interno del sistema di fortificazioni, di valutarli e di esaminarne anche la capacità di stoccaggio. Durante il I-II secolo i forti sono tenuti molto puliti e quindi il nostro lavoro sarebbe difficile se non avessimo le discariche, che contengono tutta la storia del forte. Nella discarica, generalmente posizionata fuori dalla porta del forte, troviamo ceramica, qualche moneta e materie organiche come vestiti, scarpe, attrezzi di cuoio, cibo (vegetali, fieno dei cavalli, ecc). 
Mescolati con questi materiali abbiamo i papiri (pochi) e soprattutto una grande quantità di ostraka. Nella valle del Nilo il papiro è facilmente reperibile mentre nel deserto è raro; quindi i soldati per scrivere utilizzano pezzi di anfore vinarie. Dobbiamo pensare che questi poveri soldati stanziati nel deserto non avevano altro da fare che giocare e bere: da qui la gran quantità di anfore vinarie.

La ricerca archeologica, oltre a ricostruire la storia ufficiale, ci fa anche conoscere la vita quotidiana?

La ricerca archeologica e quella sulle fonti storiche devono andare di pari passo e lavorare insieme per avere buoni risultati.
La ricerca archeologica è rivolta soprattutto verso la vita quotidiana, la grande storia in parte le sfugge. Per esempio, se non avessimo saputo grazie a Strabone e a Plinio quello che facevano questi soldati lungo le strade carovaniere, non lo capiremmo facilmente attraverso i reperti archeologici. I testi che troviamo, raramente sono in relazione con il grande commercio dei Romani con l’India. Questioni di questa portata non facevano parte delle preoccupazioni e dell’orizzonte dei soldati: loro volevano comprare una bottiglia di vino o far venire una prostituta. 

Lei si sente un po’ italiano? Ha vissuto in Italia, ha fatto scavi a Napoli, Pompei, è stato responsabile del Centre Jean Bérard di Napoli…

Io vivo tra Parigi, Napoli e Londra. A Parigi ho il mio lavoro, ma ho tenuto il mio appartamento di Napoli perché continuo a scavare e a lavorare anche in Italia; a Londra soggiorno spesso perché ci vive mia figlia. 
Quando sono a Napoli ho l’abitudine di dire che non sono un francese in Italia, ma un europeo in Europa. Penso che soprattutto chi vive nell’ambiente accademico, a cominciare dagli studenti, dovrebbe sentirsi prima di tutto “europeo”.

Ha dei contatti o delle collaborazioni con docenti dell’Università di Trento?

Sono in contatto con la collega Mariette de Vos che ha lavorato in Tunisia e in Algeria anche su installazioni per la produzione di olio. È un rapporto personale nato dalla nostra professione: lavoriamo nello stesso campo e sono molto interessato a quello che fa la collega e alle sue scoperte.