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Indagine sulla scienza. Un manuale per scettici e per credenti

di Giovanni Straffelini

8 maggio 2019
Versione stampabile

Dai tempi di Galileo il metodo scientifico si articola in due grandi momenti: la sperimentazione controllata e la modellazione matematica dei fenomeni in studio. È un metodo semplice ma che funziona: unito alla creatività dell’uomo ha reso possibili uno straordinario sviluppo tecnologico e il miglioramento della qualità della vita di gran parte dell’umanità. Ma il metodo scientifico è anche un formidabile strumento per scoprire e interpretare il mondo e dare un senso a ciò che cista intorno. Per poterlo utilizzare al meglio è però necessario comprenderne le potenzialità e i limiti.

Giovanni Straffelini si interroga sulle condizioni di validità del metodo scientifico, esaminando i pilastri che lo sostengono, vale a dire il realismo (ciò che noi osserviamo è oggettivo ed esiste indipendentemente da noi), la regolarità e l’uniformità della natura (la natura non è capricciosa) e il riduzionismo (i modelli scientifici poggiano su leggi sempre più fondamentali).

L’autore, anche sulla scorta delle più recenti acquisizioni nel settore delle neuroscienze, mostra come questi pilastri siano spesso fragili e come possano essere resi più robusti attraverso la visione teista, che prevede la possibilità dell’intervento di Dio nel mondo. Certo non si tratta, sostiene Straffelini, di perorare l’immagine di un Dio tappabuchi, chiamato in causa per colmare i vuoti lasciati dalla scienza, ma di comprendere che la visione scientifica consapevole dei propri limiti e opportunamente integrata con quella teista permette di acquisire una concezione del mondo in grado di accompagnarci al meglio nella ricerca del suo significato e del nostro ruolo all’interno di esso.

Giovanni Straffelini è professore ordinario presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Trento

 

Dal Capitolo 2: Cosa c’è là fuori? (pag. 31-40)

Cosa ha visto Galileo?

                Col suo cannocchiale Galileo osservò i satelliti di Giove e, studiando la loro orbita, ricavò informazioni fondamentali riguardo la rotazione della Terra intorno al Sole. Quanto furono affidabili le sue osservazioni? Quanto affidabili sono le osservazioni analoghe che possiamo condurre oggi?

In prima battuta la risposta è abbastanza facile: dipende dalla fiducia che riponiamo nel… cannocchiale. Prendiamo allora un cannocchiale e guardiamo qualcosa di molto lontano, ad esempio un oggetto in cima a una lunga via. Bene, gambe in spalla andiamo a controllare con i nostri occhi com’è fatto tale oggetto: se ci rendiamo conto che è uguale a quello che abbiamo visto col cannocchiale possiamo convincerci che lo strumento non ci inganna. E possiamo dunque supporre che non ci inganni neppure quando osserviamo oggetti così lontani da impedire una verifica diretta (come i satelliti di Giove).

                Prendiamo ora un microscopio ottico e esaminiamo i minuscoli particolari di un altro oggetto, ad esempio un pezzettino di metallo opportunamente lucidato. Possiamo guardare nell’oculare del microscopio a bassi ingrandimenti e scorgere dettagli, come i graffi, visibili anche ad occhio nudo, e convincerci dunque che il microscopio non ci inganna. Quando aumentiamo gli ingrandimenti, vediamo apparire particolari sempre nuovi, invisibili ad occhio nudo. Anche stavolta non possiamo fare verifiche dirette: solo la fiducia nel microscopio ci permette di ritenere affidabili le nostre osservazioni.

Queste riflessioni ci permettono di entrare nel tema del realismo. La prima domanda è scontata: quanto è ben riposta la nostra fiducia nel cannocchiale e nel microscopio quando osserviamo oggetti invisibili ad occhio nudo? In altre parole: come possiamo essere sicuri che le nostre osservazioni rispecchino la realtà esterna? A questo interrogativo ne aggiungiamo subito un altro, che estende il discorso a monte e in modo radicale: quanto ci possiamo fidare del nostro apparato visivo quando osserviamo un oggetto del mondo esterno? In altre parole: come possiamo essere sicuri che tale oggetto esista realmente fuori dalla nostra mente?

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Mente, neuroscienze e dintorni

                Quest’anno ho voluto (meglio: dovuto) passare agli occhiali progressivi. All’inizio non mi sono trovato per niente bene: il mio campo visivo era limitato alla parte alta degli occhiali per guardare lontano e a una stretta strisciolina verticale in basso per leggere. Ho passato giorni di fatica e lamentele fino a che piano piano si è materializzato il miracolo e dopo un mesetto circa ho cominciato a vedere bene senza problemi; proprio come mi avevano assicurato: “fra un mesetto i suoi occhi si saranno abituati e lei comincerà a vedere benissimo”. Oggi sono soddisfatto dei miei occhiali progressivi. Ma non sono stati i miei occhi ad abituarsi alla vista, bensì il mio cervello. Il cervello è così bravo che se gli occhiali avessero girato il mondo a testa in su, dopo un po’ di tempo - il solito mesetto o giù di lì - avrei avuto la percezione di vedere le cose diritte, in accordo con le sensazioni trasmesse dagli altri sensi.

Si ritiene che la situazione sia questa. Le radiazioni luminose – o gli sciami di fotoni, come vedremo nel prossimo capitolo - provenienti dagli oggetti che ci circondano (e che le loro superfici emettono come riflessione della luce di una sorgente esterna come il Sole o una lampadina), sono raccolte dal sistema visivo e i segnali sono poi inviati al cervello tramite il nervo ottico. Di per sé tali segnali non significano nulla: è il cervello che riempie di significato i segnali elettrochimici che arrivano dal nervo ottico, sulla base di una serie di programmi costruiti su circuiti neuronali predisposti dal codice genetico e da tutte le informazioni immagazzinate nella memoria a breve e lungo tempo con l’esperienza.

                Noi ci rendiamo conto di vedere un albero in giardino perché un opportuno programma nella corteccia cerebrale è in grado di decifrare l’informazione che arriva e conferirle il significato corrispondente creando una rappresentazione mentale dell’albero. Semplificando si può dire che tali programmi/rappresentazioni hanno due dimensioni: una sensitiva (o qualitativa) e una razionale (o quantitativa). La dimensione sensitiva permette di avere consapevolezza delle cose del mondo e dei suoi colori, odori e sapori (e di avere consapevolezza di tale consapevolezza…), provare le emozioni, avere il senso del tempo. La dimensione razionale comprende una serie di capacità intellettive, come intuire i nessi causali, riconoscere le intenzioni degli altri, sviluppare un opportuno linguaggio capace di strutturare le riflessioni e le attività complesse come la parola e il calcolo matematico. Quindi, quando percepiamo un oggetto esterno, la rappresentazione che ne abbiamo include sia la descrizione qualitativa (come, ad esempio, il colore e la sensazione al tatto della tazzina di caffè, o il sapore del caffè: tutte queste percezioni – è bene dirlo - sono condivisibili ma intrinsecamente soggettive), sia quella razionale (posso stimare la temperatura del caffè, arguire che si raffredda se ci soffio sopra, e che rimane più caldo se lo verso in un bicchiere di plastica).

La schematizzazione di Figura 2 mostra l’esistenza di una chiara cesura tra il mondo esterno (l’albero e gli altri oggetti là fuori) e le nostre rappresentazioni. Riprendendo l’analisi di Galileo e, soprattutto, quelle di Berkeley e Hume, dobbiamo allora ammettere che non c’è differenza tra qualità primarie e secondarie: in tutti i casi ci sono sollecitazioni esterne (radiazioni luminose, onde sonore, molecole gassose) che sono raccolte dai nostri organi di senso (vista, udito, olfatto, tatto), sono trasformate in segnali chimico-fisici i quali sono inviati al cervello che infine provvede a elaborarli e trasformarli in rappresentazioni di nostra comprensione.

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Per gentile concessione della casa editrice Lindau