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Ricerca

Uso prolungato e compulsivo dello smartphone

Una ricerca sui fattori genetici e ambientali condotta tra Rovereto, Trento e Singapore

18 giugno 2019
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Daniela Costantini
di Daniela Costantini
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Quante volte al giorno ci capita di chattare, interagire sui social e cercare informazioni sui nostri smartphone? Spesso, a volte così tanto da risultarne dipendenti. Il problema è che la nostra attenzione è costantemente richiamata dalle notifiche provenienti dalle varie app, che ci distolgono dai compiti che stavamo svolgendo oppure ci fanno perdere molto tempo. Esistono soluzioni efficaci per aumentare un uso più consapevole e meno compulsivo dei nostri dispositivi?
Abbiamo intervistato Ilaria Cataldo, dottoranda in Psicologia e Scienze cognitive presso l'Università di Trento, per comprendere se (e quali) fattori genetici e ambientali contribuiscano allo sviluppo di determinate abitudini. Lo studio, tuttora in corso, mira ad approfondire il ruolo di alcuni geni, in particolare quelli del recettore dell'ossitocina, insieme ad elementi legati alle esperienze dell'individuo nella prima infanzia, nelle diverse modalità di utilizzo dei social network.

Dottoressa Cataldo, qual è l'obiettivo del progetto del gruppo di ricerca di cui fa parte e perché è così attuale?

Oggi quando si parla di ‘comportamento sociale’ è necessario tenere presente che una parte crescente delle interazioni sociali si svolge sulle piattaforme online. A seconda della natura del contenuto (foto, messaggistica, video), l’utente adopera diverse componenti tipiche delle personalità e del Ilaria Cataldocomportamento sociale, come la fiducia, il bisogno di approvazione, la preoccupazione per le relazioni o altre modalità legate a uno stato di ansia tra cui l’evitamento.
Il progetto indaga il comportamento sociale nella prima età adulta sia nella vita ‘reale’ sia nell’uso dei social network (Facebook e Instagram) quando si viene sottoposti a particolari stimoli. Questi comportamenti sono messi in relazione sia con la percezione della cura e della protezione dei genitori, ricevuta durante l’infanzia, sia con le specifiche caratteristiche genetiche di ciascuna persona.

Come si è avvicinata a questi temi di ricerca e quali opportunità le ha dato l’Ateneo?

Il contributo dell’Ateneo è stato fondamentale perché mi ha dato la possibilità, attraverso la scuola di dottorato in Scienze cognitive di approfondire le mie conoscenze soprattutto dal punto di vista metodologico e sperimentale. Inoltre all’interno dell’Università di Trento ho trovato un gruppo di ricerca, l’Affiliative Behavior and Physiology Lab (Principal Investigator professor Gianluca Esposito), che si occupa della mia area di interesse. Questo mi ha dato modo di creare e sviluppare il progetto sotto la supervisione di esperti competenti in materia quali il professor Esposito per la componente neuroscientifica e il dottor Bruno Lepri della Fondazione Bruno Kessler (FBK) per l’aspetto legato all’utilizzo dei social media, grazie alla collaborazione tra questi due gruppi di ricerca. Infine, grazie all’approvazione e all’appoggio della Direzione di Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive e della Scuola di dottorato, ho potuto svolgere un anno presso la Nanyang Technological University di Singapore, dove si è sviluppata una parte considerevole della ricerca.

Quale campione di riferimento avete preso in considerazione, e come si è svolta la ricerca?

La ricerca, sviluppata e pianificata tra Rovereto, dove lavora il gruppo dell’Affiliative Behavior and Physiology Lab, e Povo, sede di FBK, è stata suddivisa in diverse fasi di raccolta, una si è svolta in Italia e una a Singapore. Sono stati coinvolti circa 1750 giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. La raccolta è stata senza dubbio la porzione più impegnativa del progetto, tra la progettazione per capire quali tecniche sarebbero state più idonee al reclutamento di studenti dell’Università di Trento e della Nanyang Technological University di Singapore e i differenti task a cui sono stati sottoposti. La procedura prevedeva la raccolta di questionari, informazioni sugli indici di utilizzo dei social network, l’analisi di campioni di mucosa della bocca per l’estrazione delle informazioni genetiche e il rilevamento di parametri neurofisiologici dell’attività cerebrale in risposta a stimoli sociali stressogeni, quali il pianto, sia di bambini sia di adulti. Come da prassi, prima di procedere in entrambe le università, il progetto è stato approvato dal Comitato Etico di riferimento.

Cosa è possibile dedurre dai risultati ottenuti?

I dati sono ancora in fase di analisi, vista l’ampiezza del campione e la complessità del database che è stato creato. Per quanto riguarda i social media, stiamo focalizzando l’attenzione su Instagram, che al momento pare essere la piattaforma più utilizzata nella fascia d’età di 18-30 anni. Instagram permette inoltre una raccolta di informazioni pubbliche maggiore, come il numero di profili seguiti, di followers e di foto postate, pur non accedendo visivamente ai contenuti nel caso di profili impostati come ‘chiusi’; mentre per accedere alle informazioni su Facebook è necessario che l’utente iscritto abbia impostato il profilo o i contenuti come pubblici per poter avere accesso agli indici di interesse. Dati preliminari suggeriscono che alcune caratteristiche tipiche delle interazioni sociali, come il bisogno di approvazione, guidano alcune modalità di utilizzo, come la visibilità del proprio profilo, il numero di foto pubblicate o la predilezione per un maggiore numero di persone seguite piuttosto che di followers.

Ci sono informazioni che potrebbero essere utili nella pratica clinica?

Capire nel dettaglio lo sviluppo di determinati comportamenti sociali, sia dal vivo sia online, potrebbe rappresentare un valido aiuto nella pratica clinica (quindi con persone che presentano un disagio sul piano relazionale), perché permettono di approfondire caratteristiche della persona e della personalità anche in situazioni virtuali, quindi creando, in caso di necessità, interventi strutturati sulle caratteristiche dell’individuo partendo dalle sue modalità socio-relazionali. Studiarle entrambe, metterle a confronto, includendo anche i possibili fattori individuali, potrebbe essere utile per poter sfruttare al meglio le proprie competenze sociali e trovare strategie soddisfacenti per la persona, senza quindi rinunciare a una modalità o all’altra.