Michele in Bolivia. Foto di Michele Paderno

Storie

Servizio civile all’estero

Michele, laureato UniTrento, ci racconta la sua esperienza in Bolivia

15 luglio 2019
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di Giulia Castelli
Laureata in Giurisprudenza UniTrento, collabora con l’Ufficio Web, social media e produzione video dell'Ateneo.

Michele Paderno è ingegnere. Si è laureato all’università di Trento lo scorso anno e poco dopo ha deciso di partecipare a un progetto di servizio civile in Bolivia. Ci ha raccontato cosa lo ha spinto a partire e quanto la sua formazione stia incidendo sulla sua esperienza.

Michele, cosa ti ha spinto ad iniziare un progetto di servizio civile in Bolivia?

Ho conseguito la laurea magistrale in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio presso l’Università di Trento lo scorso ottobre, seguendo un percorso sulla progettazione integrata del territorio nei contesti di cooperazione internazionale.

Dopo un’esperienza con compagni di corso e docenti in Etiopia e una ricerca tesi in Kosovo, la voglia di approfondire sul campo le tematiche studiate mista all’innata curiosità che da sempre mi trascina in cose nuove, ha fatto in modo che partissi nuovamente, questa volta più lontano. La Bolivia è arrivata come conseguenza di un percorso che non poteva terminare con la laurea.

Ci puoi raccontare l’ambiente in cui ti trovi e cosa stai facendo?

Mi trovo a Tarija, piccola città non troppo lontana dal confine argentino, come volontario del servizio civile presso RENACC, un’associazione boliviana finanziata dalla cooperazione italiana e tedesca. Lavoriamo sullo sviluppo rurale nelle zone montuose site a nord della città. Qui gli abitanti sono organizzati in comunità caratterizzate da case sparse attorno ad un luogo comune spesso rappresentato dalla scuola primaria e dal campo sportivo costruito e mantenuto dal governo centrale. La realtà è fortemente rurale, agricoltura e allevamento di pochi capi di bestiame danno il necessario per assicurare degne condizioni di vita.

L’associazione è composta da agronomi - sono l’unico di formazione ingegnere - con una visione decisamente critica sull’agricoltura industriale moderna, un punto di vista molto diffuso in America Latina. L’approccio che sposiamo è quello agroecologico, che in poche parole concede al suolo i suoi tempi rifiutando qualunque tipo di prodotto chimico. Questo permette ai contadini di essere totalmente indipendenti dall’industria agricola e di vivere in una terra che prima di produrre viene rispettata e non piegata alle esigenze del mercato.

Quasi tutti i giorni lavoro sul campo con i compiti più disparati: ingegnere, autista, idraulico, muratore e molto altro. Non è facile competere con i locali sui lavori fisici e spesso a fine giornata sono distrutto. Ma le soddisfazioni sono veramente tante. Posso dire che sto imparando tanto soprattutto nella parte pratica e realizzativa dei lavori che spesso a noi ingegneri manca.

Come sta andando la tua esperienza?

Giusto ora siamo all’inizio della stagione secca e già si vedono calare sensibilmente i livelli di portata dei torrenti, l’agricoltura deve quindi trovare il modo di adattarsi. Stiamo infatti supportando la costruzione di cisterne in cemento armato che presto saranno terminate. Mi ritrovo così a toccare con mano il tanto studiato cemento armato e scoprire che “saldare alla boliviana" un'armatura metallica con pinza e fil di ferro può essere un lavoro molto lungo e faticoso.

C’è tanto da lavorare, l’alimentazione è poco sana, focolari situati in piccoli spazi chiusi dove l’aria è chiaramente irrespirabile fungono da cucina e la pratica dell’open defecation risulta essere molto diffusa. Mi accorgo che l’approccio agronomico è decisamente diverso da quello ingegneristico ma questo mi permette di imparare una maniera diversa di approcciarmi alla cooperazione rurale.

In che modo la tua formazione universitaria sta influenzando la tua esperienza?

La mia formazione universitaria sta influenzando questa esperienza soprattutto per ciò che ho imparato riguardo la gestione di progetti in contesti internazionali. Il sentimento di risolvere i problemi insito in chiunque si approcci ad esperienze di questo tipo si scontra rapidamente con dinamiche difficili da comprendere figlie delle diversità del genere umano. Accettarlo è necessario perché la quotidianità è caratterizzata da eventi apparentemente senza spiegazione logica se non quella della differenza culturale.

La teoria e la tecnica in ogni caso non possono prescindere dalle persone che le generano e dall’instaurazione di un corrisposto rapporto di fiducia ben definito dalla parola cooperazione, che ho avuto la fortuna di conoscere durante gli studi. Proprio per questo desidero ringraziare chi, con passione e dedizione, si è dedicato alla mia formazione accademica.