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Formazione

Umanizzare la finitudine

Riflessioni filosofiche su morbi e morbilità a partire dall’esperienza della pandemia

15 aprile 2020
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Francesco Ghia
di Francesco Ghia
Professore associato di Filosofia morale, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università di Trento.

“Finitùdine s. f. [der. di finito]. – La condizione di ciò che è finito, cioè limitato, non infinito; nel linguaggio filosofico, lo stesso che finitezza.”  Vocabolario Treccani

Il Novecento è stato il secolo che, accanto a scoperte mediche di straordinaria ed eccezionale rilevanza, ha anche conosciuto le critiche più radicali alla pervasività del metodo clinico. La cultura filosofica, psicologica e sociologica del secolo scorso ci ha infatti fornito innumerevoli strumenti per renderci conto di qualcosa di cui sapevamo (o avremmo dovuto sapere) da sempre e cioè che, se pure, grazie anche agli imponenti progressi tecnici della medicina e della chirurgia, molte malattie vengono debellate e si scoprono nuove terapie e metodologie di cura meno invasive e distruttive, la morbilità, ossia la minaccia della malattia, continuerà ancora e per sempre a incombere sulle nostre legittime aspirazioni di benessere e salute, di sanità.

La medicina vive così, per parafrasare Camus, una sorta di «paradosso di Sisifo»: dispiegare tutti gli sforzi possibili dell’intelligenza e del cuore (come le cronache della pandemia da Covid-19 attestano) per debellare i morbi, ben sapendo però che la morbilità non potrà mai essere sconfitta, che sempre ci si continuerà ad ammalare e a morire. La morbilità è, infatti, come una sorta di mitologica Idra di Lerna: appena sconfitto un morbo, eccone apparire un altro all’orizzonte.Il pensiero umano, nel corso della sua storia, nelle forme della religione, della filosofia, della psicologia, della letteratura, dell’arte, della poesia ecc., ha elaborato molteplici strategie e risorse per trasformare e contenere il tormento del dolore, della malattia e della morte. A ben vedere, tuttavia, qualunque strategia si rivela, di fronte al mistero e all’abisso del dolore, per buona parte impotente. Le parole di consolazione possono spesso infastidire e recano insieme con sé il rischio di minimizzare il problema, facendo inevitabilmente recitare, a chi le pronuncia, la parte degli «amici di Giobbe». 

Soprattutto, tra tanto parlare, sembra progressivamente venire meno per gli individui la possibilità di accettare la propria afflizione. Un sistema di cura sempre più attento, almeno sulla carta, alle esigenze del paziente ha fatto cadere i pregiudizi sulla colpa del malato, ma ha finito spesso per sottrarre al singolo il momento dell’assunzione di responsabilità di fronte al proprio cammino di guarigione, sviluppando invece a dismisura lo strumento della delega. 
La denuncia più vigorosa di questa tendenza è contenuta in un libro del 1975 che ha fatto epoca: «Nemesi medica» di Ivan Illich. In quel saggio, dalla tesi volutamente provocatoria, Illich, ricorrendo al neologismo di «iatrogenesi» o di «società iatrogena», metteva sotto accusa una certa deriva da delirio di onnipotenza della medicina contemporanea. Con la medicalizzazione delle cure, con la creazione di ambienti asettici di profilassi, con la progressiva disumanizzazione del rapporto con il paziente – in cui spesso sembra contare di più il rispetto dogmaticamente preciso di protocolli e procedure definiti di «qualità», che non il calore della relazione affettiva – la tecnica medica finirebbe per innescare un processo di «espropriazione della salute». 

La trasformazione progressiva della medicina da disciplina fallibile, ma umana, a tecnica inesorabile di cura che persegue scientemente, ma freddamente, l’obiettivo della soppressione del dolore avrebbe così minato la capacità degli individui di far fronte lucidamente alla propria realtà, di esprimere propri valori, di accettare la realtà spesso inevitabile e irrimediabile del dolore e della menomazione, di rielaborare come dato esistenziale il proprio decadimento e la propria morte: la sofferenza dell’uomo avrebbe cioè progressivamente smarrito il valore di un messaggio da decifrare.     
Come rilevava Jean-François Malherbe, il paziente (o meglio, nel linguaggio aziendalista: il «cliente») è, nei trattamenti terapeutici, per lo più «oggetto di cure», perdendo però la sua dimensione fondamentale di «soggetto di vita». 

La pandemia ha drammatizzato il fenomeno dell’allontanamento della morte dalle nostre comunità, dalle nostre case: i malati muoiono asetticamente soli, in stanze d’ospedale, in un ambiente sterilizzato che, se ci preserva dal contagio con la malattia, ha però l’effetto in noi della rimozione dell’idea della morbilità. Se nelle società prevalentemente rurali di un tempo la malattia e la morte rappresentavano un fatto privato e, contestualmente, anche un evento sociale, comunitario, nelle nostre società industriali e post-industriali la malattia è invece quasi unicamente un fatto privato che ci mette crudelmente, asetticamente e inesorabilmente al cospetto della nostra irriducibile solitudine. Forse anche per questo la malattia ci fa tanta paura. 

La pandemia ci ha posto lucidamente davanti agli occhi alcuni problemi insiti tra le pieghe della società iatrogena. Mentre dunque non ci stanchiamo di ringraziare il personale sanitario per la generosità degli sforzi, profusi anche a sprezzo del pericolo per la propria incolumità, non possiamo tuttavia esimerci da uno sforzo di riflessione, anche sul piano filosofico, su quale società costruire e ricostruire per il dopo-pandemia. Perché la storia dell’umanità attesta che, dopo tutte le disgrazie, le tragedie, gli scacchi e i fallimenti, l’uomo ha sempre ricominciato, filo per filo, a ritessere la trama e l’ordito del proprio vivere, amare, lottare, sperare. L’auspicio per il post-pandemia vorrebbe quindi essere quello di ri-apprendere finalmente il modo di umanizzare la finitudine come spazio del limite, come il luogo di quella fragilità così umana e, proprio per questo, così essenziale.