Immagine tratta dalla copertina del libro

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NATURE IMMAGINATE. IMMAGINI CHE HANNO CAMBIATO IL NOSTRO MODO DI VEDERE LA NATURA

di Massimiano Bucchi e Elena Canadelli

27 gennaio 2016
Versione stampabile

Che cosa hanno in comune la “doppia elica” del DNA e la foto della Terra vista dalla Luna? E da dove viene quell’immagine della fecondazione assistita che abbiamo visto mille volte, sui giornali o in televisione? Nature immaginate raccoglie numerosi esempi che dimostrano come la dimensione visuale abbia avuto un impatto significativo sulle concezioni e percezioni sociali e culturali della natura. Sono molte le immagini divenute una convenzione visiva – e in certi casi una vera e propria icona – su temi quali, ad esempio, l’evoluzione umana o la struttura dell’atomo.
Arricchito da circa 250 fotografie e illustrazioni a colori, il volume ripercorre la storia di ciascuna immagine e ne documenta l’impatto sociale e culturale attraverso la pittura, il cinema, il fumetto, la comunicazione pubblicitaria. Galileo non avrebbe rappresentato la superficie lunare in un certo modo senza le competenze al disegno acquisite negli anni della formazione; il cosiddetto “mostro di Frankenstein”, metafora delle nostre più grandi paure di stravolgimento dell’ordine naturale, deve la sua fama forse più a un truccatore di Hollywood che alla sua originaria creatrice Mary Shelley.

Massimiano Bucchi è professore di Sociologia della Scienza e Comunicazione della Scienza presso l’Università di Trento.
Elena Canadelli è assegnista di ricerca in Storia della Scienza all’Università di Padova.

INTRODUZIONE

"Nel mio mondo i libri sarebbero fatti solo di figure."
Alice nel Paese delle Meraviglie, versione cinematografica Disney, 1951

Un giorno di metà Seicento, l’uomo politico e scrittore inglese Samuel Pepys si ferma dal proprio libraio di fiducia. La sua attenzione è subito attratta da un volume assai inconsueto per l’epoca, “così bello che lo ordinai all’istante, […] il libro più ingegnoso che io abbia mai letto in vita mia” (The Diary of Samuel Pepys, 1894). Quel libro è Micrographia del fisico e naturalista Robert Hooke, curatore degli esperimenti della neonata Royal Society. Sessanta immagini quasi tutte frutto di osservazioni al microscopio, in gran parte basate sulle immagini ingrandite di esseri viventi o di loro parti, come un pidocchio, una pulce, la testa di una mosca o il pungiglione di un’ape. Il giudizio di Pepys sarà confermato dallo straordinario successo del libro. È solo uno dei tanti esempi che illustrano – termine quanto mai appropriato – come sin dalle origini della scienza moderna la dimensione visuale sia stata al centro dei processi di sviluppo e condivisione di saperi e ipotesi sul mondo naturale: disegni, diagrammi, schemi e poi successivamente fotografie, immagini satellitari e filmati.
“A picture is worth a thousand words”, un’immagine vale mille parole. Così uno dei più importanti gruppi editoriali internazionali di pubblicazioni scientifiche, Elsevier, ammonisce oggi gli scienziati che aspirano a pubblicare sulle sue riviste. Nuove opportunità di visualizzazione e rappresentazione hanno segnato spesso discontinuità significative non solo sul piano dei contenuti specifici, ma delle più ampie percezioni della natura e del nostro rapporto con il cosmo, e non solo tra gli specialisti. Studiosi come Marjorie Nicolson si spingono ad esempio ad
affermare che “possiamo datare l’inizio del pensiero moderno dalla notte del 7 gennaio 1610 in cui Galileo, attraverso lo strumento che aveva sviluppato, pensò di aver percepito nuovi pianeti e nuovi mondi” (Nicolson, 1956, p. 4). Similmente, un “mondo nuovo” si spalanca davanti agli occhi dei lettori dell’epoca quando osservano le splendide immagini della Micrographia di Robert Hooke. Almeno potenzialmente, infatti, la dimensione visuale si presta – più di quella testuale – a connettere pubblici e cerchie comunicative diverse. Anzi, in certi casi essa è stata la chiave per coinvolgere, interessare e “arruolare” interlocutori rilevanti ma esterni alle abituali reti di comunicazione tra specialisti. Alcuni dei “disegni squisiti” di Hooke furono ad esempio realizzati in occasione di una visita del sovrano Carlo II alla Royal Society; quando Hooke fu incaricato “di mostrare le sue osservazioni microscopiche in un bel libro per quello scopo” (Nicolson, 1956, p. 163).
Fasi cruciali nello sviluppo didattico e divulgativo dei saperi del mondo naturale sono state caratterizzate dal ruolo centrale assegnato alle immagini, come nella rapidissima diffusione delle “carte parietali” in ambito naturalistico in numerosi Paesi a partire dal mondo tedesco, tra Otto e Novecento. Avvicinandoci ai giorni nostri, è possibile pensare a come l’ampia e significativa produzione di immagini di grande impatto e fascino nell’ambito della ricerca ed esplorazione spaziale abbia contribuito e continui a contribuire al sostegno sociale, politico ed economico di queste attività. D’altra parte la diagnostica medica – come ad esempio nel caso dei raggi X – ci ha consentito di ampliare i confini di ciò che può essere visto rispetto al nostro corpo, aprendo alla vista nuovi e inaspettati territori. Recenti contributi sottolineano anche come la presenza di immagini capaci di impressionare l’opinione pubblica possa essere decisiva nella salienza, ad esempio di diverse questioni ambientali. Così nel 1979, una delle più gravi perdite di materiale radioattivo della storia, nella riserva Navajo di Church Rock, New Mexico, rimase sostanzialmente ignota al grande pubblico a causa della mancanza di immagini efficaci per documentarla (dovuta anche alla difficoltà di accedere al sito e alla sua distanza dai grandi centri informativi). Viceversa, un film documentaristico come "Una scomoda verità" (2006), incentrato sulla testimonianza dell’ex vicepresidente statunitense Al Gore, è ricco di immagini capaci di visualizzare con immediatezza la minaccia del cambiamento climatico (Dunaway, 2015). Oggi, nell’epoca della comunicazione digitale, esperti e pubblico vivono costantemente immersi in un ambiente in cui la parte visiva gioca un ruolo centrale, soprattutto nella presentazione di contenuti tecnico-scientifici. Si pensi all’importanza che ha assunto la qualità – e perfino la bellezza – delle immagini per pubblicare un articolo su una rivista scientifica in settori come le scienze fisiche, astronomiche o le scienze biologiche e mediche, al punto che alcuni studiosi ormai lo ritengono uno dei criteri decisivi nell’accettazione di un contributo. In ambito divulgativo, si pensi al ruolo ormai pervasivo che gioca “il culto moderno delle infografiche”, la presentazione di dati in forma sofisticata e perfino interattiva che ormai caratterizza le principali testate informative e siti web. L’attenzione è in crescita, tanto che oggi si comincia da più parti a porre un tema di “alfabetismo visuale”: abbiamo davvero le competenze per decifrare e condividere in modo appropriato queste immagini? L’immediatezza della dimensione visuale, la sua capacità di travalicare confini linguistici e steccati disciplinari rischia infatti di essere scambiata superficialmente per l’immediata comprensione dei suoi contenuti. Nel 2014 l’Osservatorio Scienza Tecnologia e Società ha condotto per la prima volta un’indagine sulla capacità di riconoscere alcune immagini “classiche” provenienti dalle scienze naturali, una sorta di indice di alfabetismo scientifico visuale da affiancare agli indici di competenza più tradizionali. I risultati confermano in linea generale che alcune immagini come la cosiddetta “doppia elica” del DNA) sono ormai parte del modo collettivo di “vedere la natura”: la capacità di riconoscerle correttamente supera l’80%, una percentuale molto più elevata del dato abitualmente riscontrato con le tradizionali domande riguardanti i contenuti delle stesse discipline (mai superiore al 60%). Questo libro è una raccolta di esempi in cui la dimensione visuale ha avuto un impatto significativo sulle più ampie concezioni e percezioni sociali e culturali del mondo naturale. Non ha la pretesa di fare una storia sistematica, né esaustiva delle immagini in questo ambito: sarebbe questa un’impresa probabilmente quasi impossibile, e comunque poco in linea con il taglio divulgativo e accessibile che qui abbiamo inteso offrire. Ogni capitolo è strutturato partendo da un’immagine dalla presenza consolidata nelle forme più comuni di rappresentazioni di certi temi o fenomeni naturali; spesso così consolidata da essere divenuta una convenzione visuale per affrontare certi argomenti (dalla fecondazione assistita all’evoluzione della specie umana); spesso così condivisa e robusta da resistere ai successivi sviluppi della conoscenza (il modello dell’atomo). Il capitolo riassume brevemente le modalità di produzione dell’immagine e i percorsi che hanno portato a consolidarne la presenza; ne esplora successivamente l’impatto sociale e culturale, spesso documentato attraverso altre immagini che da quella principale sono state, a vario titolo, ispirate o influenzate. Il lettore sarà forse stupito nel constatare che, soprattutto in alcuni casi, le stesse modalità di produzione non sono meno eterogenee e articolate di quelle che hanno accompagnato il successo “popolare” dell’immagine in questione. Perché una rappresentazione visiva divenga uno stereotipo – o come si dice talvolta, forse con minor precisione, una icona – occorre un concorso trasversale di saperi, ambiti, Cfr. più avanti nel volume. I risultati sono esposti in Bucchi, Saracino, 2015, pp. 11-38 attori, linguaggi espressivi e pubblici diversi. Galileo non avrebbe rappresentato – né forse visto nel pieno senso del termine – la superficie lunare in un certo modo senza le competenze al disegno acquisite negli anni della formazione; il Dodo, così come oggi tutti lo vediamo, è frutto di singolari rimbalzi tra arte, scienza e letteratura; l’aspetto che siamo soliti attribuire al cosiddetto “mostro di Frankenstein”, metafora delle nostre più grandi paure di stravolgimento dell’ordine naturale, deve forse più a un truccatore di Hollywood che alla sua originaria creatrice Mary Shelley; l’Onda per eccellenza prende forma da una celebre opera d’arte del giapponese Hokusai, forse ispirata da un fenomeno naturale, ed è a sua volta impiegata oggi per allertare al pericolo di eventi naturali estremi. Ciascun capitolo è concepito per poter essere letto in maniera autonoma.
Il lettore potrà quindi, sulla base dei propri interessi e della propria curiosità, costruirsi una personale “galleria” visuale, non meno idiosincratica della nostra, e a sua volta “immaginare” numerosi altri esempi che non ci è stato possibile includere. La bibliografia, oltre ai testi citati nelle schede, elenca alcune letture generali con cui approfondire vari aspetti dell’argomento.

Per gentile concessione di Aboca editore.