“Maschera di Agamennone” (Museo Archeologico di Atene) 

Formazione

DALLE CIVILTÀ EGEE ALLA GRECIA CLASSICA

Il contributo di tre studiosi ospiti a marzo dell’Ateneo trentino: Mario Negri, Erika Notti e Mario Tulli

15 marzo 2016
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Giulia Arpino
di Giulia Arpino
Dottoranda presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

La rilevazione per via strumentale delle onde gravitazionali generate dalla collisione di due buchi neri ha di recente offerto una spettacolare conferma sperimentale alla rivoluzionaria ipotesi di Albert Einstein. Nelle cosiddette scienze dure, l’osservazione di un fenomeno prima solo ipotizzato è la norma: ma anche gli studiosi di scienze dell’antichità hanno conosciuto in alcune, fortunate occasioni, la gioia di vedersi restituire dal passato le prove tangibili della fondatezza del loro sapere.

La scoperta e successiva decifrazione delle tavolette micenee redatte nella scrittura chiamata Lineare B, avvenuta verso la metà degli anni Cinquanta, ha rappresentato uno di quegli eccezionali momenti. Le tavolette costituiscono l’archivio dei palazzi intorno a cui si articolava la civiltà micenea, fiorita tra il 1600 e il 1100 circa a. C. I siti archeologici che restituirono questi preziosi reperti, innanzitutto, coincidono con la geografia del mito e dell’epica greca: i luoghi su cui anche l’odierna ricerca indaga - citiamo almeno Pilo, Tebe, l’isola di Creta - sono gli stessi in cui Omero colloca i suoi eroi, e in cui i grandi tragediografi ateniesi ambientarono le loro opere.

Ma ciò che più lasciò sbalorditi i pionieri che si occuparono di questi documenti furono i loro contenuti: i nomi delle divinità, ad esempio, che sono le stesse del pantheon olimpico; l’organizzazione sociale, che sembra suggerire una struttura gerarchica paragonabile a quella di cui ci parlano i poemi omerici; i nomi di luoghi e di persona, che alle orecchie del grecista suonano quasi sempre familiari e riconoscibili, anche quando accade che rimandino a realtà sconosciute. Il dato più eccezionale e inatteso che emerse nel corso della decifrazione fu infatti la scoperta che la lingua celata sotto i segni del sillabario miceneo è proprio greco: un greco arcaico, certo, ma perfettamente riconoscibile, e che anzi, proprio in virtù della sua straordinaria antichità (di circa mille anni più antico rispetto al greco che si studia nei licei) ha consentito di confermare (o smentire) tutta una serie di ipotesi sulle origini della lingua greca e sul suo sviluppo. 

Queste le entusiasmanti prospettive che si aprivano sessant’anni fa grazie al lavoro di decifrazione compiuto da Michael Ventris e John Chadwick. Da allora abbiamo imparato a considerare la civiltà micenea nella sua autonomia, e non più solo come un sorprendente prequel della Grecia classica, apprezzandone le discontinuità culturali non meno delle conferme che essa fornisce alle conoscenze che già avevamo.

Dei recenti indirizzi di studio sulle civiltà egee (sui Micenei, quindi, ma anche sulla più misteriosa civiltà minoica, fiorita a Creta nella prima metà del II millennio a.C., le cui iscrizioni sono redatte in una lingua tuttora ignota) hanno parlato Mario Negri ed Erika Notti. I due studiosi hanno illustrato alcune nuove scoperte non prive di aspetti inquietanti: i documenti in Lineare B sembrano attestare, ad esempio, che i Micenei praticavano – non sappiamo se abitualmente o solo in casi di particolare gravità – sacrifici umani. Questo dato, pur essendo in profondo contrasto con la religiosità dei Greci di età successiva, ci fa vedere sotto una nuova luce quei racconti mitici di pratiche sacrificali sfiorate (Ifigenia), sventate (Teseo e il Minotauro – un mostro, guarda caso, cretese), o realizzate in condizioni estreme (gli ostaggi troiani che Achille sgozza sulla pira di Patroclo), di cui la letteratura greca serba il ricordo come di fatti abnormi.

Insomma: anche quando l’analisi della documentazione archeologica ed epigrafica di età micenea evidenzia discontinuità rispetto alla storia della civiltà greca di epoca successiva, la letteratura mostra di conservare traccia di quel passato, pur nelle forme del racconto mitico.

Proprio sul valore della testimonianza letteraria come documento attendibile per una storia delle idee si è fondato il contributo portato da Mauro Tulli. Rintracciando in testi poetici di varie età (da Omero a Esiodo, fino a Parmenide) le espressioni con cui il soggetto descrive l’origine del proprio canto, lo studioso ha delineato un percorso evolutivo che da una modalità di ispirazione passiva, interamente mediata dall’azione della Musa, ha portato al riconoscimento, da parte del poeta, del proprio originale apporto creativo.

l ciclo di tre seminari “Le più antiche parole dei Greci: testi documentari e testi poetici”, organizzato dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento nell’ambito del corso di dottorato "Le Forme del Testo", si è svolto a marzo in tre incontri rivolti a dottorandi, docenti e studenti. Le lezioni sono state tenute da Mario Negri ed Erika Notti, entrambi dell’Università IULM di Milano e Mauro Tulli dell’Università di Pisa.