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Formazione

Il processo di radicalizzazione

Conversazione con lo studioso Lasse Lindekilde dell’Università di Aarhus, ospite della Scuola di Studi Internazionali

25 febbraio 2021
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Micaela Musacchio Strigone
di Micaela Musacchio Strigone
dottoranda di ricerca della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento.

Lasse Lindekilde, professore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Aarhus (Danimarca), ha tenuto la lezione inaugurale dell’International Master in Security Intelligence and Strategic Studies (IMSISS), nuovo corso di laurea magistrale della Scuola di Studi Internazionali avviato nell’ambito del programma Erasmus Mundus Joint Master Degree (EMJMD).

Il professor Lindekilde si occupa di mobilitazione politica, radicalizzazione violenta e di attuazione e impatto delle politiche e della comunicazione di contrasto al terrorismo. In questa conversazione abbiamo discusso del processo di radicalizzazione e di alcuni concetti chiave della sua attività di ricerca. 

Il master internazionale in Security Intelligence and Strategic Studies (IMSISS) si prefigge l’obiettivo di analizzare le sfide contemporanee alla sicurezza globale come i conflitti, il terrorismo e la cybersecurity. Che cos’è la radicalizzazione e perché lei ritiene che sia una sfida per la sicurezza contemporanea? 

La radicalizzazione è il processo attraverso il quale un individuo o un gruppo arriva a percepire la violenza politica come un mezzo legittimo per raggiungere obiettivi politici. È importante indagare questo fenomeno perché sappiamo, grazie a ricerche e fatti d’attualità, che gli attentati terroristici riescono a fare pressioni anche su società democratiche solide e organizzate imponendo un senso di insicurezza nella popolazione. Gli attentati terroristici inoltre innescano un dibattitoLasse Lindekilde relativo alla parte di libertà individuale cui siamo disposti a rinunciare per proteggerci da questa minaccia. In questo senso, il terrorismo rappresenta una sfida importante per la democrazia ed è quindi necessario capire i processi dai quali deriva. 

Nella sua attività di ricerca lei evidenzia il ruolo delle dinamiche di gruppo e della socializzazione nel processo di radicalizzazione. Perché queste dinamiche sono importanti? 

Per comprendere come avviene il processo di radicalizzazione è fondamentale capire come le persone socializzano in gruppi in cui si condividono idee estremiste. La socializzazione alla violenza non riguarda solo il modo in cui un individuo entra in contatto con un gruppo, ma anche il modo in cui un individuo viene esposto a idee violente per la prima volta. Questo spesso accade attraverso legami personali con persone che già fanno parte di un gruppo terroristico. Le dinamiche dei piccoli gruppi sono fondamentali perché è proprio attraverso connessioni e relazioni con persone che la pensano allo stesso modo che un individuo passa dall’insoddisfazione per l’operato del governo all’accettazione e alla disponibilità a ricorrere alla violenza politica.

Per studiare il luogo in cui avviene il processo di radicalizzazione, lei ha sviluppato il concetto di radical milieu. Che cosa significa, e perché è importante?

La questione del perché la radicalizzazione non sia distribuita in modo omogeneo nello spazio e nel tempo è stata piuttosto trascurata dalla ricerca accademica. Empiricamente, si è osservato che i fenomeni di radicalizzazione tendono a verificarsi maggiormente nei quartieri più svantaggiati. Tuttavia, quando si osservano queste zone in termini socio-demografici si capisce che ve ne sono molte altre con caratteristiche sociodemografiche molto simili che rimangono estranee ai fenomeni di radicalizzazione. Perché accade questo? Penso che la criminologia e lo studio dei tassi di criminalità in determinate aree urbane possano aiutarci a rispondere a questa domanda complessa. Dovremmo concentrarci di più sulle modalità di convivenza e sul senso di comunità delle persone che vivono in questi quartieri e sulle aspettative di chi ne fa parte, piuttosto che sul ruolo, spesso amplificato dai media, di qualche soggetto specifico che promuove l’attività di radicalizzazione. 

Uno dei problemi principali nello studio della radicalizzazione e del terrorismo è l’accesso ai dati. Come ha affrontato la questione?

La risposta breve è che uso molte fonti. Troppi ricercatori si arenano sulla questione pensando che sia necessario parlare con persone che si sono già radicalizzate. Se pensassimo che questi siano gli unici dati su cui poter lavorare non andremmo molto lontano. Possiamo anche fare affidamento su dati liberamente accessibili, come i casi giudiziari o i reportage giornalistici. Ho utilizzato queste fonti e ho anche collaborato con le forze di polizia per avere accesso a dati riservati. Tuttavia, credo che siamo giunti a un punto nello studio della radicalizzazione in cui è necessario trovare delle alternative. Una via percorribile, che ho seguito con il mio gruppo di ricerca, è costituita dai dati di indagini sperimentali: penso che ci sia molto da imparare dallo studio di persone normali e delle loro impressioni e dal modo in cui queste impressioni si associano al loro comportamento e alla loro disponibilità ad accettare la violenza come strategia.

Nella sua attività di ricerca lei usa il concetto di ‘attore solitario’. Come si differenzia da quello di ‘lupo solitario’?

Personalmente, ritengo che il concetto di “lupo solitario” sia orribile perché trasmette l’impressione che si tratti di qualcuno da ammirare che ha compiuto un gesto importante. Negli studi sul terrorismo, con “attore solitario” si fa riferimento a una particolare sottocategoria di attentati terroristici compiuti da individui che hanno agito da soli. Il punto principale della mia ricerca è che questi attori solitari non sono poi così solitari. Se esaminiamo il processo di radicalizzazione, è illusorio pensare all’auto-radicalizzazione, che non si verifica quasi mai. Nel processo di radicalizzazione, di norma, anche gli attori solitari sono in contatto, di persona o su internet, con altri gruppi o individui. Il concetto di lupo solitario rafforza la percezione errata che questi individui siano persone intelligenti uscite dal nulla per compiere attentati. In realtà, come dimostrano i dati, questo avviene raramente. Gran parte del successo della teoria del lupo solitario si deve all’attenzione ricevuta dal caso di Anders Breivik (il terrorista norvegese di estrema destra che uccise 77 persone a Oslo e Utøya nel luglio 2011). Breivik è un caso eccezionale sia per la letalità dell’azione sia per il suo percorso di radicalizzazione solitaria. Tuttavia, la maggior parte dei casi si discosta dal caso Breivik, e il termine “lupo solitario” è fuorviante e in contrasto con la realtà empirica. Gli attori solitari sono soli nell’esecuzione dell’azione, ma non nel processo di radicalizzazione. 


The radicalisation process
A conversation with Lasse Lindekilde of Aarhus University, who visited the School of International Studies

by Micaela Musacchio Strigone
PhD student at the School of International Studies of the University of Trento. 

Lasse Lindekilde, professor at the Department of Political Science of Aarhus University, gave the inaugural lecture of the International Master in Security, Intelligence and Strategic Studies (IMSISS), the new degree programme of the School of International Studies in the framework of the Erasmus Mundus Joint Master Degree (EMJMD).

His research focuses on political mobilization, violent radicalization and the implementation and effects of counter-terrorism policies and communication. In our conversation, we discussed what radicalisation is, and some key concepts in his research. 

The IMSISS course aims at investigating contemporary security challenges such as conflicts, terrorism and cyber security. What is radicalisation, and why do you think it is a contemporary security challenge? 

Radicalisation is the process by which an individual or a group comes to perceive political violence as a legitimate means to reach political goals. It is important to investigate this process, as we know from research and current events how terrorist attacks can pressure even an established and well-functioning democratic society by imposing a sense of insecurity in the population. Moreover, terrorist attacks spark debate about how much individual freedom we are willing to give up in order to secure ourselves from this threat. In this sense, terrorism represents a major challenge to democracy and we have to understand the processes that lead to this threat.

In your research you highlight the role of group dynamics and socialisation in the radicalisation process. Can you tell us why these processes are important?

To understand how radicalisation unfolds it is crucial to study how individuals are socialised into groups in which extreme ideas are present. Socialisation into violence does not refer only to how an individual connects to a group, but also to how they first became exposed to violent ideas. This often happens through personal ties with somebody that is already involved in a terrorist group. Small group dynamics are important because it is through links and relationships with like-minded people that individuals move from being dissatisfied with how the government is working, to the acceptance and willingness to use political violence.

To investigate the where of radicalisation, you have developed the concept of the radical milieu. What does this mean, and why is it important? 

The question of why radicalisation is not evenly distributed in space and time has been mostly overlooked in academic research. Empirically, it has been observed that radicalisation is something that tends to occur more in deprived neighbourhoods. However, when you look at these neighbourhoods from a sociodemographic point of view, you realise that there are many other neighbourhoods with very similar sociodemographic characteristics where radicalisation does not occur. Why is that? In order to answer this complex question, I believe criminology and research on crime rates in particular neighbourhoods can help shed light on the matter. We should focus more on how people live together in a neighbourhood, what the sense of community is in that neighbourhood, and the expectations to be part of that community, rather than – as the media overemphasise – some particular “radicalizing agent” living in a particular place. 

One of the major problems with the study of terrorism and radicalisation is access to data. How have you dealt with this issue?

The short answer would be that I use many different sources of data. Too many researchers get stuck with this problem, believing that we need to talk necessarily with people that have already radicalised. If we believe that this is the only data that can be used, we are not going to go very far. We can also rely on open source data such as court cases or journalistic accounts. I have used these sources, and also collaborated with police to access restricted data. However, I believe that we are at a point in the study of radicalisation in which we have to think of new ways. One path that I have pursued with my research team has been to use experimental survey data: I believe there is a lot to learn from studying ordinary people and their perceptions and how these perceptions link to their behaviour and their willingness to accept violence as a strategy. 

In your research you use the concept of lone actor. How is this concept different from that of lone wolf?

Personally, I believe that the concept of lone wolf is terrible as it conveys the impression of someone cool doing an important deed. Lone actor terrorism is just a way of talking about a particular subset of terrorist attacks carried out by individuals. The main point in most of my research is that these lone actors are not that ‘alone’. If we look at the process of radicalisation, it is a misconception to think about self-radicalisation, as this happens rarely. Even lone actors are normally in contact, throughout their radicalisation, with other groups or individuals, either face to face or over the internet. The lone wolf concept fuels the misperception that these individuals are clever people that came out of nowhere to carry out attacks. This is rarely true when you look at the data. Much of the success of the lone wolf concept is due to the attention paid to the case of Anders Breivik (the Norwegian far-right terrorist who killed 77 people in Oslo and Utøya in July 2011). Breivik is an exceptional case both for the extreme lethality of his deed and his lonely radicalisation process. However, most cases are not like Breivik’s, and the term lone wolf is misleading and in contrast with the empirical reality. Lone actor terrorists are alone when they carry out their deed, but not in the process of radicalisation.