European citizens' panel on the future of Europe (2018), foto Frederic Sierakowski, archivio Unione europea (http://ec.europa.eu).

Internazionale

L’Europa del dopoguerra e la democrazia

Tra dimensione nazionale e sovranazionale

20 aprile 2021
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Fernanda Marchiol
di Fernanda Marchiol
Dottoranda in Culture d'Europa. Ambiente, spazi, storie, arti, idee all'Università di Trento.

La storia delle democrazie occidentali nel secondo Novecento, immersa nelle dinamiche internazionali della Guerra Fredda, e la storia dell’integrazione europea sono spesso considerate universi paralleli, separati l’uno dall’altro, pianeti che ruotano su orbite distinte. 

La più recente storiografia sta invece cercando di esplorare le connessioni e le tensioni tra il processo di democratizzazione degli Stati europei dopo la Seconda Guerra mondiale e l’europeizzazione delle nascenti democrazie. 

In quest’ottica, il 18 e 19 marzo 2021 si è tenuto il convegno internazionale “Democracy in the construction of Europe” alla Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento. Le due giornate di studi rappresentano l’evento scientifico conclusivo di un progetto Jean Monnet dal nome omonimo, di durata biennale, condotto dalla professoressa Sara Lorenzini e finanziato dalla Commissione europea. 

Gli studiosi e le studiose, provenienti da numerose università europee, hanno affrontato una rilettura critica della più recente storia d’Europa, guardando ad essa come a un laboratorio di governance sovranazionale. Hanno analizzato come le diverse connotazioni assunte nel tempo dal concetto di democrazia abbiano influenzato il progetto europeo, e come quest’ultimo, a sua volta, abbia condizionato le pratiche della democrazia. 

In ragione delle sue diverse connotazioni, il concetto di democrazia va declinato in relazione al contesto storico e a una precisa periodizzazione. Sebbene gli storici e le storiche concordino nel ritenere il deficit democratico” innato nel progetto europeo, inizialmente l’integrazione europea era considerata un processo democratico. Da un lato, perché gli Stati fondatori erano democrazie; dall’altro, perché le istituzioni sovranazionali europee, con i loro poteri limitati, non sembravano poterne intaccare la democraticità. 

Secondo Martin Conway (Università di Oxford), le istituzioni europee avrebbero dato vita “a una visione alternativa della democrazia”, a “uno spazio democratico deparlamentarizzato”. Pur restando il simbolo per eccellenza della democrazia europea (e con esso la lunga storia che ha portato alle prime elezioni dirette del 1979), il Parlamento europeo non esaurisce tutte le pratiche democratiche, che in Europa avvengono anche altrove. Questo ripensamento critico mette in luce molti altri attori, non solo istituzionali, che vanno considerati dalla ricerca storica: ad esempio, il ruolo della società civile con le organizzazioni non governative, i movimenti, le associazioni transnazionali.

Fu negli anni Settanta che la questione del deficit democratico divenne importante, come testimoniano le lotte politiche di personalità come Altiero Spinelli, contro l’immobilismo che paralizzava la governance europea, stretta in un continuo rimbalzo tra Consiglio dei Ministri (organo rappresentativo dei governi nazionali), Commissione (organo non elettivo che aveva il potere di proporre le leggi), e Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati nazionali), a fronte di un Parlamento europeo ancora non eletto e privo di sostanziali poteri politici. 

Uno dei motivi di contrasto era la differenza di vedute sui modelli di governance della Comunità europea e sull’interpretazione degli obiettivi comunitari. In proposito, è interessante notare che la richiesta di rafforzare il ruolo politico del Parlamento è spesso arrivata dalla Commissione, e in essa da figure carismatiche come Walter Hallstein, “sebbene fosse per loro controproducente” – ha evidenziato Piers Ludlow (London School of Economics) – perché accentuava il contrasto con gli Stati nazionali rappresentati nel Consiglio. 

Paradossalmente, mentre si levava la richiesta di democratizzare le istituzioni, la democrazia diventava un prerequisito per gli Stati che volessero entrare a far parte della Comunità europea, nel contesto degli allargamenti dal 1973 in poi, contribuendo ad affermare un’immagine internazionale dell’Europa come esportatrice di diritti e giustizia sociale. Questa dimensione molto forte, connotata come obiettivo di politica estera, ha condotto molta storiografia a dipingere l’Europa come “un impero benevolo”, dimenticandone la natura di potere post-coloniale, la cui missione civilizzatrice – ha messo in luce Sara Lorenzini (Scuola di Studi Internazionali) – si può tradurre come “una forma di eredità imperiale radicata e ancora presente nel progetto europeo”. In quest’ottica, può essere letta anche la presenza di standard multipli in riferimento ai diritti di cittadinanza: il concetto stesso di “cittadinanza europea” è tuttora ambiguo, ma sarebbe proprio questa ambiguità a far emergere nuovi modelli di cittadinanza.

Alla luce di queste considerazioni, e di molte altre emerse nel convegno, quando si affronta la questione della democrazia nel progetto europeo è necessario considerare quella che Kalypso Nicolaïdis (Università di Oxford ed European University Institute) ha definito “dimensione schizofrenica” del pensiero democratico, per indicare gli slittamenti di significato e le diverse connotazioni assunte nel tempo da questo concetto che, tuttavia, nonostante i paradossi e le contraddizioni, è stato ed è uno dei pilastri dell’identità europea. 

Oggi la questione della democrazia europea è ancora irrisolta e la recente vicenda della Brexit ha messo in luce la reversibilità del progetto europeo. Una tensione tra modelli diversi di governance democratica e sovranazionale c’è stata ed è ancora viva, e aumenta in proporzione all’affermarsi di un ruolo pubblico della società civile, che preme per innovare le pratiche della democrazia. Il deficit democratico è anche un deficit culturale e comunicativo. 

Sebbene la storiografia si sia a lungo occupata di democrazia, gli studi affrontati nel corso della conferenza e nei due anni di progetto Jean Monnet rivelano così tutta la loro attualità. 

L’evento si è svolto in telepresenza. Assieme alla professoressa Sara Lorenzini (Scuola di Studi Internazionali, pricipal investigator del progetto), fanno parte del comitato scientifico e organizzativo i ricercatori Umberto Tulli (Scuola di Studi Internazionali) e Gabriele D'Ottavio (Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale) dell'Università di Trento.