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Le fragilità nascoste nei social

Intervista a Ilaria Cataldo, psicologa dell’età evolutiva, collaboratrice di ricerca del Dipsco

4 luglio 2023
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

L’incidente mortale a Roma nel quale ha perso la vita un bimbo di 5 anni, avvenuto nel corso di una sfida online lanciata da un gruppo di youtuber, è l’ultima di una serie di tragedie accadute in diretta social. Giovani che decidono di mettersi alla prova, di superare i limiti, costantemente connessi a Internet, con conseguenze spesso drammatiche. Si discute, anche nella comunità scientifica, di quanto i social siano colpevoli. Ma forse il problema è da ricercare è altrove?

Ilaria Cataldo nella sua analisi parte da un punto molto importante: «E’ un dato di fatto che oggi i giovani sono perennemente connessi. Questo perché i social esistono, ma non sono stati creati per loro in primis. Cambiano i tempi e gli strumenti ma non cambia il fatto che i ragazzi e le ragazze guardano gli adulti, li osservano, e li imitano. Dobbiamo chiederci che eredità tecnologica stiamo lasciando loro. Anche i bambini sono protagonisti sui, e dei, social, fin da piccoli abituati ad avere tra le mani il cellulare, usato come ‘ciuccio elettronico’. Come possiamo toglierlo da quelle stesse mani a 13 anni?».

Lei parlava di eredità tecnologica. É anche vero che gli adulti non sempre sanno utilizzare i social e non sanno come esercitare il controllo di questi strumenti. I ragazzi ne sanno più di loro.

«Certo. Domandiamoci però se il controllo è l’unico comportamento che gli adulti possono agire. C’è uno strumento che è molto più potente, ed è quello del dialogo. L’ adulto tende a stare sul piano cognitivo e comportamentale. Ma non dimentichiamo che abbiamo a che fare con dei ragazzi e delle ragazze che stanno maturando, anche dal punto di vista cerebrale, e quindi non hanno ancora tutte le strutture e le chiavi di lettura. È necessario tornare a un linguaggio più emotivo senza che gli adulti riversino addosso ai più giovani le loro angosce, le loro preoccupazioni o paure del fallimento che rischiano di diventare le stesse dei ragazzi e scatenare reazioni drammatiche. Pensiamo ad esempio ai suicidi tra gli universitari».

 Cosa si intende per dialogo emotivo?

«È quello basato sull’altro. Non è semplicemente chiedere all’adolescente come è andata a scuola, ma chiedere come sta, che sentimenti sta provando. Oggi tutto è incentrato sulla performance e poco all’ espressione di sé, che spesso invece trova spazio sui social. Cambiano le esperienze e gli spazi, quello che oggi sono i social un tempo era la nostra cameretta, ma i meccanismi sono gli stessi. Certo, il pubblico è più ampio e cambiano le conseguenze. Il bisogno di trasgressione adesso è online, e viene delegato. Quel rischio di chi gioca diventa adrenalina in chi guarda. È il motivo per cui ad esempio su Twitch spopolano i profili di gamers che fanno video mentre giocano. È un grande fratello continuo, si sceglie di guardare chi gioca in maniera pericolosa mettendo a rischio il proprio corpo. Corpo che resta fondamentale nell’ adolescenza, perché è in trasformazione, a volte è abitato da angosce e per questo viene messo a dura prova».

 A questo proposito le chiedo perché cresce il fenomeno delle challenge estreme?

«Nel momento in cui queste sfide incontrano una fragilità, trovano un terreno fertile. Fragilità che appartiene sia a chi compie la sfida che a chi la segue. Chi pubblica le challenge si rivolge ad una popolazione più o meno ampia. Chi invece le guarda le agisce in solitudine. Sono modalità differenti non sempre accompagnate dalla cognizione di causa. Le conseguenze sono imprevedibili. Non è una questione di perdita della realtà legata al virtuale. Negli anni ’80 o ’90, quando internet non era così presente, i giovani si rifugiavano nell’ idolatria del proprio cantante preferito per sfuggire alla realtà. Il rifugio nella fantasia è tipico dell’infanzia, serve a costruire la propria identità. È il recupero del senso di onnipotenza che però poi ad un certo punto sfugge dal controllo, si amplifica quando gli adolescenti diventano più autonomi e indipendenti».

 Come intervenire?

«Con il dialogo, l’ascolto, la possibilità di riflettere sulla mente dell’altro e non sulla propria. Bisogna lavorare di più sull’emisfero destro del cervello, quello che si sviluppa per primo nel periodo post-natale, e permette la comunicazione emotiva con l’altro. C’è poi il tema della pandemia, che ha delegato a internet molti aspetti della nostra vita e toglierli adesso diventa contraddittorio. La rete ha salvato le relazioni sociali, la scuola, il lavoro, come si fa a tornare indietro?».

 Gli episodi di cronaca accaduti stanno stimolando il dibattito scientifico?

«Sicuramente. Ci sono studi soprattutto sui trend passati perché i tempi della ricerca sono lunghi e la tecnologia evolve molto rapidamente, quindi i risultati a volte arrivano un po’ dopo. Possiamo citare ad esempio lo studio di Brandon T. McDaniel sull’interferenza tecnologica (con questo termine ci si riferisce alle intrusioni della tecnologia nelle relazioni tra persone, ndr.) Ma guardando a qualche decennio fa, queste ricerche non sono molto diverse dall’ esperimento “still face” condotto da Edward Tronick, solo che adesso abbiamo i genitori al telefono. I meccanismi sono gli stessi, sono cambiati gli strumenti. Sarebbe importante integrare la ricerca scientifica con una riflessione sui bisogni di questo tempo e perché questi fenomeni si inseriscono così bene nella trama di questa società. Il sintomo è la soluzione che la persona o la fascia di popolazione sta dando ad un dato problema. Bisogna capire qual è il problema a monte. Spesso il focus è sui ragazzi ma bisogna forse osservare di più gli adulti e capire cosa manca a loro in questo momento».