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IL PIANTO DEI NEONATI

Cosa può rivelare agli studiosi sul bambino e su chi lo accudisce. Intervista a Gianluca Esposito

26 luglio 2017
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di Marinella Daidone
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Il pianto dei neonati può rivelare molte cose sul bambino e su chi lo accudisce ed è oggetto di studi da parte di diverse discipline. Nelle scorse settimane l’Università di Trento ha ospitato il 13th International Infant Cry Workshop che ha fatto il punto sullo stato attuale della ricerca in questo campo. Ne abbiamo parlato con uno dei responsabili scientifici, il professor Gianluca Esposito del Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive.

Professor Esposito, com’è nata l’idea di questo convegno e di quali tematiche vi siete occupati?
Esiste un network internazionale di ricerca che si occupa dello studio del pianto infantile. I ricercatori di tale network si ritrovano a cadenza triennale per un convegno internazionale la cui prima edizione risale al 1971. La professoressa Paola Venuti ed io siamo attivi in questo gruppo di ricerca sin dal 2002, e per l’edizione del 2017 ci siamo fatti promotori, organizzando l’evento nella splendida cornice di Castel Noarna. 
L’obiettivo di questo workshop è stato lo studio del pianto infantile da prospettive teoriche e con approcci metodologici differenti. La prima sezione dell’evento è stata dedicata allo studio dei meccanismi fisiologici, genetici e comportamentali sottostanti le manifestazioni del pianto e allo studio delle attivazioni a livello cerebrale di persone adulte, in particolare dei genitori, quando sentono piangere un bambino. 
La seconda sezione si è concentrata, invece, sui pianti difficili da calmare (in inglese detti “unsoothable”) che sono presenti in circa il 20% dei bambini e che logorano chi si prende cura di loro. Si tratta di bambini che dormono poco di notte e che piangono per parecchie ore al giorno. Tale fenomeno, pur non essendo di per sé patologico, può avere effetti sul benessere familiare nonché ricadute cliniche nel caso in cui non si intervenga in maniera precoce e mirata. In tali situazioni, diviene cruciale una risposta adeguata da parte del genitore o di chi se ne prende cura. Svariati studi hanno mostrato come questi tipi di pianto possono essere predittivi di disturbi del comportamento nelle fasi successive dello sviluppo.
La terza sezione dei lavori è stata dedicata, infine, all’uso del pianto come indicatore precoce di disturbi dello sviluppo. Tipi anomali di pianto possono, infatti, costituire un segnale precoce di disturbi clinici conclamati, fra i quali l’autismo. In questa parte del convegno sono stati proposti studi che spaziano dai modelli animali ai modelli umani e che investigano i meccanismi genetici e fisiologici alla base del comportamento. 

Qual è il contributo dato a questi studi dal vostro gruppo di ricerca e più in generale dall’Università di Trento? In alcuni di questi ambiti voi siete stati dei pionieri…
Per quanto riguarda lo studio e l’analisi del pianto nel contesto dei disturbi dello spettro autistico i primi studi che abbiamo pubblicato, insieme alla professoressa Venuti, risalgono a più di quindici anni fa. Si è trattato di studi pioneristici, poi replicati da gruppi di ricerca indipendenti in diversi paesi del mondo.
Un altro contributo importante che l’Università di Trento ha dato in questo ambito, riguarda lo studio dei meccanismi cerebrali che mediano la risposta di un adulto che ascolta il pianto di un bambino e l’effetto di tale risposta sul bambino stesso. In una serie di studi che hanno utilizzato diverse tecniche di indagine, quali la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’elettroencefalografia (EEG), o la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), abbiamo mostrato che un adulto, ascoltando un bambino piangere, attiva una parte della corteccia supplementare motoria che indica una preparazione al movimento. Questa risposta è specifica per il pianto.
Come tutti i genitori del mondo avranno sperimentato, la strategia più immediata per calmare un bambino che piange è quella di prenderlo in braccio e camminare. I nostri studi hanno identificato i meccanismi neuronali coinvolti nel processo per il quale il bambino si calma durante il trasporto materno. Si tratta di un meccanismo condiviso probabilmente in tutte le specie di mammiferi chiamato “transport response”. Il fatto di essere trasportato attiva il sistema parasimpatico del bambino che si immobilizza, si calma e smette di piangere. 

Esiste una differenza di genere? L’uomo e la donna reagiscono in modo diverso al pianto del bambino?
Esistono delle differenze di genere nella risposta al pianto. In effetti, sebbene il pianto attiri l’attenzione sia delle donne sia degli uomini, sulle donne pare avere un impatto maggiore. Se una donna sta svolgendo un compito e sente un bambino piangere, questo suono inficia la sua performance molto di più di quanto non accada in un uomo. Tuttavia, non dobbiamo pensare che l’uomo non risponda al pianto, lo fa in maniera diversa.
Dal punto di vista dell’evoluzione della specie, la donna doveva provvedere all’allattamento del bambino, mentre il compito dell’uomo era fornire protezione. Uno studio che stiamo conducendo in questi mesi con l’Università olandese Radboud e con l’Università di Nagasaki in Giappone, riguarda l’aumento dei livelli di cortisolo in uomini che stanno per diventare papà (con compagne al settimo mese di gravidanza) e successivamente nei primi mesi di vita del bambino. Dati ancora in corso di verifica sembrano indicarci che il cortisolo sia un predittore del livello di cure parentali più nei papà che nelle mamme.
In altri studi, è stato mostrato come la mamma tende in genere a essere tendenzialmente più ansiosa: si tratta spesso di un’ansia funzionale alla protezione del bambino. Il papà ha, talvolta, un compito opposto e complementare, ossia quello di aumentare l’orizzonte di possibilità del bambino. E in questa dinamica il bambino ha l’opportunità di esplorare il mondo e allo stesso tempo di sentirsi sicuro. 

Lei accennava anche a rapporti con altre istituzioni internazionali, ce ne può parlare?
Gli studi che stiamo facendo sulle interazioni tra genetica e contesti socio-culturali richiedono la raccolta e il confronto di grandi quantità di dati raccolti su popolazioni quanto più possibile diversificate. Per questo le collaborazioni internazionali sono particolarmente importanti.
Abbiamo intensi rapporti di ricerca con il National Institutes of Health (NIH) degli Stati Uniti, e in particolare con il professor Marc H. Bornstein che di recente è diventato Professore onorario dell’Università di Trento, ma anche con molti altri istituti tra cui la Nanyang Technological University (Singapore), le Università della California-Irvine e quella di Miami, la Radboud University di Nijmegen in Olanda; diverse Università giapponesi (Nagasaki, Chiba) e con il Riken Brain Science Institute di Tokyo. La collaborazione con tali istituzioni straniere è anche a mio parere molto importante, poiché permette la mobilità - in entrata e in uscita - di studenti impegnati in attività di ricerca, Infine, abbiamo molte collaborazioni anche con istituzioni italiane, tra le quali l’Istituto Superiore di Sanità di Roma e l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.