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Storie

Tanti villaggi in una scatola magica

L’Italia di ieri e di oggi attraverso i 100 anni della radio e i 70 della televisione. L’analisi della sociologa Elena Pavan

2 aprile 2024
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Il 6 ottobre 1924 il primo annuncio radiofonico dall’Uri, l’Unione radiofonica italiana. Il 3 gennaio 1954 sul piccolo schermo il via alla programmazione televisiva. Il Paese di allora era molto diverso da quello di oggi. Era l’Italia del boom economico, dei cambiamenti sociali, della modernizzazione tecnologica. Erano gli anni dell’affermazione della radio. Poi arrivò la televisione. La scatola magica che raccontava attraverso il video quello che succedeva. Ma questo è il passato. Qual è adesso il futuro di questi mezzi di comunicazione? Ne abbiamo parlato con Elena Pavan, docente di Teorie e tecniche delle comunicazioni di massa e digitali al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale, responsabile del MultiMedia Lab (M2Lab), un laboratorio di ricerca che monitora i discorsi mediatici e le rappresentazioni sociali sui mezzi di comunicazione.

Professoressa, quale è stato il ruolo della radio e della televisione nel processo di cambiamento del nostro Paese?

È importante non aspettarsi di trovare un ruolo solo per entrambi questi mezzi di comunicazione. Una costante però presente in entrambi all’interno della società è quella di aiutare a costruire la realtà nel quotidiano. Entrambi, da sempre, sono costruttori di realtà. E lo fanno in due modi diversi: da una parte, dando testimonianza rispetto a questioni di cui non abbiamo una esperienza diretta, raccontandoci di luoghi e accadimenti lontani. Dall’altra, sovrapponendo il loro racconto a ciò che noi viviamo in prima persona.

Oggi però c’è il fenomeno delle fake news. Esisteva anche prima?

Il fatto che radio e televisione costruiscano realtà non significa che siano fabbricanti di verità. Per lungo tempo, sia rispetto alla radio ma soprattutto rispetto alla tv che ha con sé la potenza delle immagini, si è pensato si trattasse di strumenti che riflettono la realtà. Invece la costruiscono, e lo fanno da un posizionamento molto parziale, che può essere un punto di vista dominante o sfidante, e con intenti a volte dannosi. La televisione e la radio la fanno le persone: le voci che ci arrivano appartengono a individui, organizzazioni, istituzioni che sono portatori di una specifica visione del mondo che viene però proposta come riflesso dell’opinione pubblica generale, come se vi fosse consenso generale su ciò che affermano. Lo fanno perché già entrare negli spazi della televisione e della radio conferisce loro una certa autorità: anche se è più semplice di prima entrare in questi spazi non tutte le persone parlano alla radio o alla tv. Certamente, le cose sono un po’ diverse da quanto televisione e radio hanno incrociato internet. Oggi c’è una maggiore interattività, grazie alle pratiche del second screen e dell’on demand. Ma comunque, soprattutto se guardiamo ai canali principali, televisione e radio rimangono uno spazio per pochi. Chi entra si fa portatore di una posizione prevalente, ha una sua lettura della realtà, e soprattutto nei casi di tv e radio commerciali c’è una proprietà a cui dare conto. Aumentano le voci, e questo va benissimo, ma televisione e radio non riflettono un’opinione pubblica unica e monolitica: piuttosto, ne costruiscono tante.

La radio, anche se qualcuno la dava per superata, ha saputo rinnovarsi nel tempo, attraverso il web e i podcast. Qual è invece il futuro della televisione?

Io sono abbastanza scettica rispetto al fatto che un mezzo di comunicazione possa scomparire. Piuttosto, credo che si trasformi. Oggi i vari spazi mediatici vivono un fenomeno di convergenza, di ibridazione tra loro. La radio, per esempio, è diventata una pratica visibile con i canali satellitari. Secondo l’indagine dell’Eurobarometro su come la popolazione italiana accede alle notizie, per il 71% degli intervistati la tv è il media più utilizzato per accedere alle news, seguita dalla stampa online (42%) e dalle piattaforme radiofoniche (37%). Anche la televisione si trasformerà e forse i confini tra uno spazio e l’altro si ridurranno sempre di più. Il futuro di questi mezzi di comunicazione è anche legato al futuro di chi li utilizza, alle nuove generazioni e ai tanti pubblici che oggi li seguono.

Come è cambiato il linguaggio rispetto a questi strumenti di comunicazione?

Sappiamo tutti che radio e tv sono stati fondamentali per l’alfabetizzazione e forse si guarda a questa modalità con un po’ di nostalgia. La collaborazione nel migliorare o peggiorare la nostra quotidianità passa però anche attraverso la scelta di dare spazio e visibilità a prodotti educativi costruiti in una certa maniera. Penso ai programmi per bambini e bambine. Il modo in cui si racconta loro il mondo è fondamentale per la costruzione del futuro, come era un tempo insegnare a leggere o a scrivere in tv. Nella televisione italiana c’è un’estrema bianchezza. Siamo poco abituati alla diversità etnica. E quando presente, è molto incasellante. Le persone non bianche sono sempre rappresentate in determinati ruoli: migrante, indigente, malvivente, personale di pulizia. Lo stesso vale per la costruzione dei generi e le rappresentazioni stereotipate delle donne, delle soggettività non binarie o delle persone trans. Le vediamo poco, e male. Analogo ragionamento possiamo farlo per la radio quando trasmette una grande hit senza domandarsi se la canzone possa fare da amplificatore per qualche schema di rappresentazione, per esempio in tema di amore e di relazione tra i generi. Il grande problema della radio e della televisione è che noi li pensiamo come spazi monolitici. In realtà sono dei villaggi, dove dentro ci sono tantissime cose. Molte buone, altre meno buone. Altre ancora migliorabili.