È stata la matricola numero 2 della neonata Facoltà di Sociologia a Trento, nel 1962. Allora, gli iscritti e le iscritte erano poco più di 200. «Persone un po’ strane ma interessanti, scontente del mondo», questo il primo ricordo di Marianella Sclavi, che ha vissuto in prima persona gli anni delle contestazioni studentesche del ’68 a Trento, delle occupazioni, degli scioperi e delle manifestazioni.
Illuminanti per lei la storia e gli scritti di Max Weber, incrociati durante un’esperienza di studio alla University Services di Minneapolis, e l’incontro con un gruppo di ex allievi dell’università americana, pionieri del movimento dei diritti civili che andavano nel sud degli Stati Uniti a convincere le persone di colore a iscriversi alle liste per il voto, sfidando il Ku Klux Klan. Da qui la scelta di venire a Trento per studiare Sociologia. «Ho scelto Sociologia perché avevo l’attesa e il desiderio di apprendere una disciplina che mi avrebbe portato ad essere competente per cambiare il mondo. Sociologia era un buon compromesso – aggiunge la sociologa ed etnografa romagnola (è nata a Rimini) – tra la mia indecisione di fare piccolo teatro e medicina». Sociologia come rappresentazione della realtà ma anche come cura dunque. Parte da qui la sua storia, che si intreccia con quelle di personalità come Marco Boato, “don” Loris Capovilla, Checco Zotti, Luigi Chiais e Mauro Rostagno (con cui condivideva un appartamento in via Cavour). «Ricordo che leggevamo e discutevamo tantissimo, guardavamo la cartina del pianeta e cercavamo di capire cosa le persone dovevano coltivare per non morire di fame».
«Trento è stata l’occasione per costruire un gruppo di amici che sentiva un impegno morale. I nostri incontri tendevano a creare amicizie profonde. Sentivamo la responsabilità verso il mondo. Ci siamo inventati organismi di rappresentanza degli studenti. Sentivamo l’esigenza, come generazione, di riempire un vuoto», ricorda ancora. Un vuoto che si è riempito con le proteste e con la prima occupazione di un’università italiana. «Alla notizia che ci saremmo laureati in Scienze politiche e non in Sociologia (la decisione di integrare la sociologia nell’ambito delle scienze politiche e sociali era stata presa dal Senato nel 1965, ndr.) ci siamo arrabbiati e abbiamo occupato». Un’occupazione durata 18 giorni, contrassegnata da interessanti dinamiche interne ed esterne. “La mattina si preparava la colazione in aula Magna, venivano a trovarci i seminaristi che ci portavano il prosciutto. La sera si suonava e si stava insieme. Si era creato un rapporto con la città di grande alleanza e simpatia. Abbiamo organizzato una prima grande manifestazione coinvolgendo anche le scuole superiori e medie. C’erano migliaia di studenti che gridavano “Sociologia sì! Scienze politiche no!”. Una cosa che non mi sarei mai aspettata». Inizia così un periodo in cui la realtà supera le aspettative, in tutti i sensi. Di quegli anni fa un’analisi lucida e onesta. «Abbiamo fatto grandi studi e sperimentato avventure. Personalmente ho però un giudizio molto negativo. C’è stato un momento in cui ci siamo chiusi su noi stessi. I leader erano diventati soffocanti e non davano spazio agli altri. Non eravamo più innovativi». Ed ecco la svolta personale. «Verso la fine degli anni Settanta ho avuto una crisi profonda. Avevo deciso che come generazione avevamo fallito, per mancanza di umorismo. Così sono andata all’estero per guardare le cose da un altro punto di vista. Sono stata un anno in America per studiare il rapporto tra conoscenza e umorismo». E qui prende forma e sostanza quello che poi diventerà il suo strumento di ricerca. «Ho scoperto che matematici, fisici, psicologi sociali, critici letterari, avevano scritto libri sull’importanza dell’umorismo nelle loro discipline. La dinamica della comprensione del mondo è analoga a quella del racconto umoristico. Ciò vuol dire che l’approccio sperimentale è umoristico. Il metodo scientifico funziona attraverso il tentativo di capire cosa sta succedendo facendo delle ipotesi. Queste ipotesi vengono smentite. E la smentita viene assunta come un momento favorevole alla comprensione. Non è un momento di débâcle ma un salto in avanti perché si riesce a guardare la realtà da altri punti di vista». Da questo anno di ricerca nasce il libro “A una spanna da terra” uscito nel 1989 e ancora oggi utilizzato nelle università. Scriverà poi testi che sono diventati una guida per i sociologi e non solo, da “La signora va nel Bronx” all’ “Arte di ascoltare e mondi possibili” ad “Avventure Urbane. Progettare la città con gli abitanti”, solo per citarne alcuni. L’idea che ha della ricerca scientifica Marianella Sclavi è che osservando la realtà si modifica il problema che si sta indagando, non bisogna avere preconcetti, si procede per tentativi e fallimenti.
Nella nostra chiacchierata cita non solo Weber ma anche Émile Durkheim, Georg Simmel, Raissa Maritain. «Testi che tutti – dice – dovrebbero leggere per conoscere il mondo e capire come cambiarlo».
Era attivista nel Sessantotto, in cui si lottava per la giustizia sociale e per i diritti di studenti, donne e lavoratori. Lo è ancora adesso, impegnata in progetti di rigenerazione urbana partecipata e di democrazia deliberativa.
La studiosa domani è ospite della cerimonia di laurea che si svolgerà in piazza Fiera. Questo pomeriggio alle 17.30 incontra gli studenti e le studentesse dell’Università in aula Kessler, al Palazzo di Sociologia. Qual è il messaggio per loro?
«Siate esploratori di mondi possibili. Preservate la libertà di ricerca. Abbiate speranza e coraggio di cambiare il mondo. Non basta battere i piedi. Penso alle iniziative dei Fridays for Future, a Occupy Wall Street, al movimento Black Lives Matter, agli ecoattivisti. È necessario riconoscere che per quanto positivi, di per sé incidono molto poco. Rischiano il fallimento, e la mancata attuazione delle indicazioni della Conferenza di Parigi 2015 sul surriscaldamento globale ne è la dimostrazione. Bisogna ripensare radicalmente la governance territoriale e la rappresentanza politica, altrimenti non si ottengono risultati».