Congresso SIF2017, foto commemorativa, © Giovanni Cavulli, archivio Università di Trento.

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DONNE E SCIENZA

Intervista a Speranza Falciano, fisica sperimentale e membro della Giunta esecutiva dell’INFN

2 ottobre 2017
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di Marinella Daidone
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Il mondo scientifico è ancora appannaggio degli uomini? In parte sembra di sì. I dati emersi dal progetto “Donne&Scienza” dell’Università di Trento mettono in rilievo uno squilibrio di genere che si accentua in alcune aree disciplinari e nei livelli gerarchici più alti. Una riflessione su questi temi si è svolta a margine del Congresso nazionale della Società Italiana di Fisica, ospitato quest’anno dall’Università di Trento. Nella tavola rotonda “Fisica, femminile singolare” a raccontare la loro storia sono state alcune scienziate di successo. 
A chiusura dell’evento è stata realizzata una foto commemorativa che si richiamava a quella scattata al Congresso di Solvay del 1927, nella quale Marie Sklodowska Curie era l’unica donna fra 28 uomini. Questa volta le parti sono invertite: c’è solo un uomo a essere ritratto insieme a 28 scienziate.
Una di queste è Speranza Falciano, alla quale abbiamo rivolto alcune domande. Componente della Giunta esecutiva dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), è referente per le attività di Ricerca & Sviluppo e di Trasferimento Tecnologico dell’Istituto. Fa parte della collaborazione ATLAS, uno dei due esperimenti al Large Hadron Collider del CERN che hanno permesso la scoperta del bosone di Higgs. È autrice di oltre 800 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali.

Professoressa Falciano, ci può brevemente parlare del suo percorso professionale?
Dopo la laurea ho vinto una borsa di studio al CERN e sono partita per Ginevra. Dovevano essere quattro mesi, sono diventati sei anni. Il CERN mi offriva l’opportunità di fare ricerca nel campo della fisica subnucleare in uno dei più grandi laboratori internazionali con eccellenze anche nel campo dell’elettronica, della meccanica, della costruzione dei rivelatori di particelle, della fisica degli acceleratori. L’ultimo periodo all’estero l’ho trascorso presso il Politecnico di Zurigo, ma quando si sono riaperti i concorsi in Italia ho preferito tornare. Lavoro all’INFN dal 1983 dove ho percorso vari step in carriera fino a diventare Dirigente di Ricerca. Con questo profilo ho avuto la possibilità di candidarmi alla direzione della Sezione INFN di Roma Sapienza che ho diretto per sei anni.

Lei è stata la prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente dell’INFN, a livello nazionale.
Sì è così; e sono stata la prima donna (e per adesso l’unica) anche nella Giunta esecutiva dell’ente che è composta da cinque fisici che lavorano in stretta collaborazione con il Presidente e con il Consiglio direttivo. Poichè nell’INFN le cariche sono tutte elettive, questi incarichi mi sembrano segnali positivi. Io mi riferisco all’ambiente della fisica nucleare, ma ho ascoltato gli interventi di oggi, i racconti di ricercatrici e scienziate, e mi sembra che qualcosa si stia muovendo.

Nella ricerca scientifica la presenza femminile è sempre stata minoritaria. Qual è la sua esperienza a riguardo? Qualcosa sta cambiando?
Sì, rispetto a quando io ero giovanissima, qualcosa sta cambiando anche a livello internazionale. Al CERN, dove arrivano ricercatori da tutti i Paesi membri e da oltreoceano, io sono sempre stata bersagliata - paradossalmente - dalla domanda sul perché tante donne in Italia che si dedichino alla fisica. 
Io ero l’esempio di un’anomalia: in Italia, rispetto alla media europea, ci sono sempre state più donne nel campo della fisica delle particelle.
Credo che questo avvenga perché la scuola secondaria italiana non penalizza troppo le ragazze, mentre a introdurre i pregiudizi verso una facoltà o una carriera scientifica secondo me sono la famiglia, la società, l’ambiente di lavoro che intervengono nel momento della scelta per il futuro.
Il dato oggettivo è che oggi siamo di più e che se ne parla. La trasparenza e l’informazione sono fondamentali per costruire una società più equa.

Come membro della Giunta INFN lei coordina, tra l’altro, il trasferimento tecnologico. Nel modo di pensare comune è ritenuto un ambito “più adatto” agli uomini.
Sono attività considerate di appannaggio maschile solo a causa di vecchi stereotipi, in realtà possono essere svolte senza nessuna difficoltà dalle donne visto che anche questo è solo un problema di competenze. 
Io sono una fisica sperimentale che si appassiona soprattutto nella fase di costruzione degli esperimenti, ma ho anche la passione per lo sviluppo e le applicazioni di tecnologie e metodologie che utilizziamo nella fisica nucleare ad altri settori disciplinari. Mi occupo di trasferimento tecnologico perché mi piace, è molto vicino al lavoro che svolgevo quando riuscivo a dedicare il 100% del mio tempo alla ricerca.
Credo che il Presidente INFN abbia scelto me come referente del trasferimento tecnologico perché la mia passione per la tecnologia poteva essere utile. Però, ricordandomi soprattutto del passato, posso testimoniare che anche nel nostro ambiente si pensava ad attività più adatte alle donne (ad esempio il software) o più adatte agli uomini (ad esempio lo sviluppo di elettronica o di strutture meccaniche necessarie agli esperimenti, quindi hardware). Oggi fortunatamente queste discriminazioni culturali sono molto diminuite, anche se non sono del tutto scomparse.

Cosa fare per incentivare il trasferimento tecnologico in Italia? Un problema che non riguarda solo l’INFN ma anche le università.
Università e INFN lavorano in simbiosi. Per esempio una delle realtà presenti in Trentino è il TIFPA nato da questa interazione. Il TIFPA è un’esperienza davvero unica che mette insieme, grazie al sostegno della Provincia autonoma e all’Università di Trento, una mescolanza di saperi che dalla fisica fondamentale approda alla fisica applicata in maniera del tutto interdisciplinare ed estremamente efficace. Una realtà da incentivare e, a mio avviso, soprattutto da copiare quale possibile modello adatto al trasferimento tecnologico. Questo territorio è particolarmente fertile per far nascere e validare esperienze come il TIFPA.
Infatti noi siamo bravissimi nella ricerca di base (lo dicono le valutazioni internazionali). Spesso, però, per raggiungere risultati d’eccellenza ci servono prodotti ad alta tecnologia (informatica, elettronica, meccanica, superconduttività), che non esistono sul mercato, quindi dobbiamo attrezzarci per produrli in proprio. È evidente che prodotti così avanzati e innovativi possono interessare la società civile e il mondo industriale. Da qui parte un discorso di collaborazione tra università, ricerca e imprese. Personalmente mi sono impegnata molto per cercare di far capire che fare ricerca non è solo scoprire il bosone di Higgs, ma anche trarre vantaggio dalle tecnologie che sono state necessarie per produrlo in laboratorio. 
Abbiamo fatto degli studi insieme agli economisti e i dati ci dimostrano che un trasferimento tecnologico di alto livello ha un’incisività importante: amplia il mercato, apre nuovi filoni produttivi, favorisce l’assunzione di personale qualificato. Credo però che alcuni meccanismi vadano cambiati, in particolare per quanto riguarda i finanziamenti, cercando di incentivare molto di più i soggetti che fanno ricerca e possiedono il Know-how.
Per fare innovazione occorre avere un progetto tecnologico, scriverlo, avere una governance che sia in grado di portarlo avanti; occorrono degli strumenti di monitoraggio, per fare in modo che tutto funzioni, e delle competenze complementari - che in genere sono nell’impresa - per capirne il valore e le ricadute economiche. Ricerca e Impresa devono coordinarsi meglio nel trovare la configurazione ideale per collaborare, anche nella divisione dei fondi e nella governance del progetto. 
Investire in innovazione è costoso, e molte volte le imprese non se lo possono permettere o non hanno gli strumenti o il personale per affrontare certi percorsi. Sono però le imprese a ottenere i maggiori finanziamenti per trasferimento tecnologico con bandi a loro dedicati e non gli enti di ricerca o le università. Penso quindi che i finanziamenti pubblici dovrebbero essere distribuiti in modo diverso, premiando anche chi fa ricerca e ha le competenze per guidare l’innovazione (università, enti di ricerca) in modo da avere budget finalizzati al trasferimento tecnologico e non depauperare il fondo ordinario della ricerca che deve rimanere dedicato ai suoi scopi istituzionali.