Frontespizio della Piazza Universale di Tommaso Garzoni, ed. tedesca del 1659

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CITTADINANZA E LAVORO

Una valutazione teorica

5 novembre 2018
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Francesco Ghia
di Francesco Ghia
Professore di Filosofia morale presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento

«Perciò, visto che tutti sono occupati in mestieri utili e senza sprechi di tempo, succede talvolta che, essendoci abbondanza di prodotti, un grandissimo numero di lavoratori sia mandato a riparare le strade quando queste siano dissestate; molto spesso, però, se non si ravvisa la necessità di simili interventi, si procede a una riduzione dell’orario di lavoro. Infatti, i magistrati non costringono i cittadini, contro il loro volere, a fatiche superflue, dato che la costituzione di quello Stato ha come scopo primario che tutti i cittadini, nei limiti imposti dalle necessità collettive, siano liberi dalla schiavitù del corpo e dedichino quanto più tempo possibile a una libera attività dello spirito. In questo, secondo loro, consiste la felicità del vivere». 
(Thomas More, Utopia, 1517)

Nel 1958, in Vita activa, Hannah Arendt descriveva la società moderna nei termini di una società del lavoro, decretando la definitiva vittoria dell’animal laborans. Centrale nella trattazione arendtiana era la distinzione tra la semantica del lavoro e la semantica dell’opera, una distinzione che, se così si può dire, contrapponeva in origine Roma ad Atene. Se nel termine lavoro si enfatizza l’etimologia latina, si sottolinea maggiormente la dimensione della fatica e della sofferenza connessa al sostentamento o il travaglio del mantenimento della vita, come nel francese travail o nello spagnolo trabajo. Se invece si enfatizza l’etimologia greca, si evidenzia la dimensione pratica e produttivo-costruttiva come nel caso dell’inglese work (contrapposto a job) o del tedesco Werk. 

L’evoluzione storica dei processi lavorativi, secondo Arendt, avrebbe progressivamente condotto le donne e gli uomini verso una società in cui si è verificata una diminuzione drastica della fatica connessa alle attività lavorative e a un adeguato compenso; tuttavia, da ciò non è conseguita l’emancipazione politica delle lavoratrici e dei lavoratori, ma ne è derivato soltanto il primato del lavoro. Anzi, molti fattori legati all’evoluzione del capitalismo globale sembrerebbero far propendere per una riproposizione della dicotomia della semantica fatica/opera nell’ottica di una, secondo le parole di Ulrich Beck, divisione internazionale del lavoro. Nei paesi del primo mondo e del capitalismo avanzato si diffondono interpretazioni del lavoro che tendono a rimarcare l’odierna inutilità del suo essere vincolato alla materialità e a dare invece sempre maggiore rilevanza a risorse quali la creatività, la connettività e la capacità di innovazione. Nei paesi del cosiddetto terzo mondo, invece, un numero crescente di donne e uomini si vedono costretti a lavorare in luoghi non a caso definiti sweatshops, postazioni nelle quali il lavoro permane vincolato alla dimensione della fatica e, letteralmente, del sudore della fronte. 

In questo contesto, l’idea liberale del lavoro come grande integratore di diritti sociali e di cittadinanza e come modello di inclusione richiede di essere problematizzata e discussa. Quale rapporto di potere genera la dipendenza lavorativa da un’altra persona? Come influisce questa dipendenza sull’uguaglianza e sulla libertà, che da un punto di vista formale dovrebbero essere garantite a tutta la cittadinanza grazie al lavoro stesso? Quando si parla di lavoro, si tratta esclusivamente di descrivere la prestazione di un servizio e la produzione di un’opera, oppure entrano in gioco anche dei meccanismi disciplinari e di assoggettamento a un ordine (sociale, politico, religioso)? 

Se n’è discusso al Dipartimento di Lettere e Filosofia durante il seminario “Cittadinanza e lavoro”. Il seminario ha inteso fornire un primo quadro orientativo su un tema assai vasto e lo ha fatto secondo due linee direttrici che, si è convenuto anche al termine dei lavori, dovrebbero sempre essere tenute insieme: la prospettiva storico-concettuale, che fornisce il contesto di riferimento per delineare l’oggetto di discussione, e la concretizzazione etico-pratica e sociologico-giuridica, che fornisce la prospettazione dei possibili sviluppi. 

Il seminario “Cittadinanza e lavoro” si è tenuto lo scorso settembre presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Durante le due giornate dell’evento sono intervenuti i docenti: Michele Nicoletti (Dipartimento di lettere e filosofia, Università di Trento), Mauro Nobile (Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università di Trento), Tiziana Faitini (Max-Weber-Kolleg für kultur- und sozialwissenschaftliche Studien, Universität Erfurt), Francesco Ghia (responsabile scientifico dell’evento, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università di Trento), Fabio Mengali (Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università di Trento), Pablo Scotto Benito (Departament de Teoria Sociològica, Filosofia del Dret i Metodologia de les Ciències Socials, Universitat de Barcelona), Ricardo Garcia Manrique (Departament de Teoria Sociològica, Filosofia del Dret i Metodologia de les Ciències Socials, Universitat de Barcelona), Luca Nogler (Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento), Dimitri D’Andrea (Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Firenze), Adalgiso Amendola (Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione, Università di Salerno) e Anna Simone (Dipartimento di Scienze Politiche, Università di Roma Tre).