Statua di Giacomo Leopardi a Recanati. Foto Adobe Stock

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Leopardi e il primato della lirica

Un incontro del seminario permanente di poesia Semper

19 novembre 2019
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Paolo Colombo
di Paolo Colombo
Frequenta il corso di dottorato di ricerca Le forme del testo, dell’Università di Trento.

Che Leopardi sia stato poeta, e soprattutto poeta lirico, non è certo una tesi da dimostrare. Anzi, nel Novecento la critica è stata piuttosto impegnata in un’operazione di segno contrario, e cioè nel provare, in polemica con la limitativa interpretazione crociana, che Leopardi fosse anche altro: prosatore, pensatore, filologo, poeta satirico, restituendo così un’immagine senza dubbio più autentica e completa della produzione dell’autore. 

Eppure, non si può negare che pochi interessi ebbero nel suo itinerario intellettuale più spazio e longevità della riflessione sullo statuto della poesia lirica, cui si dedicò fin dagli esordi. Una sorta di profilo storico della lirica italiana occupa già le prime pagine (1817) dello Zibaldone, e muove dall’attribuzione di un indiscusso primato a Petrarca. 

Presto, poi, la disamina si estende alla tradizione letteraria italiana dal Cinque al Settecento (Chiabrera, Testi, Guidi e Filicaja); di ciascuno sono evidenziati i pregi e, soprattutto, biasimati i difetti. Nel medesimo periodo inizia inoltre a prendere corpo un motivo destinato ad attraversare tutto il percorso leopardiano, ossia l’idea che la vera eloquenza, in verso come in prosa, sia più facilmente raggiungibile parlando di sé. Si tratta di una persuasione che si può far risalire all’esaltazione della «natura», quindi della spontaneità, anche primitiva, contrapposta alla fredda «ragione»; ma che rivela l’influsso di un modello fondamentale nella formazione leopardiana, Vittorio Alfieri, la cui autobiografia fu dal Recanatese letta con ammirazione e variamente imitata nelle prove giovanili. 

Anche nel carteggio con Pietro Giordani, avviato nello stesso 1817, Leopardi fa mostra di una concezione titanica che vede nel poeta un individuo eccezionale. Al piacentino, che gli aveva raccomandato di esercitarsi nella prosa prima di cimentarsi con la poesia, Leopardi aveva infatti confidato il 30 aprile 1817: «per esprimere quello che io sento ci voglion versi e non prosa». 

Nel corso degli anni Venti, poi, mentre per un verso si mostra incline a rispettare le forme tradizionali del genere (il titolo della raccolta edita a Bologna nel 1824 è Canzoni), Leopardi si dedica con rinnovato vigore alla riflessione sulla lirica, che gli appare sempre più un formidabile strumento conoscitivo. Così scriveva nell’ottobre 1821: «Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario […]?» (Zibaldone, 1856). 

E ancora, due anni dopo: «Il poeta lirico nell’ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l’uomo d’immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l’uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell’entusiasmo del pianto […] vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere» (Zibaldone, 3269). Il dato più significativo offerto dal passo è senz’altro l’estensione dell’esperienza all’uomo qualunque, che, nel pieno della passione o nell’entusiasmo del pianto può anch’egli attingere a tale conoscenza per illuminazione. Sono in tal modo stravolti i presupposti sui quali poggiava la vocazione letteraria del giovane Leopardi, suggestionato dalla lezione alfieriana e dall’idea dell’eccezionalità del poeta, individuo più degli altri provvisto di «forte sentire». 

A partire da queste premesse si giunge, nel 1826, alla definizione della poesia lirica come genere primigenio e imperituro. Una naturale facoltà lirica, afferma Leopardi, è insita in ogni individuo anche incolto, indipendentemente dall’epoca o dalla nazione di appartenenza, e obbedisce a una funzione innanzitutto ricreativa e consolatoria, di fugace evasione dall’ineludibile infelicità che caratterizza la condizione umana. 
Non stupisce allora che, dopo le Canzoni del ’24 e i Versi del ’26, nel dare alla luce il terzo e in certo modo definitivo libro poetico, al quale affidava la sintesi della sua esperienza lirica, Leopardi abbia pensato a un titolo nuovo: Canti.

Lo scorso ottobre Paolo Colombo ha tenuto un seminario sul tema Leopardi e il primato della lirica
L’incontro si è svolto nell’ambito del ciclo di appuntamenti Semper, il seminario permanente di poesia diretto da Pietro Taravacci e Francesco Zambon e promosso dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Ateneo.
Ricordiamo che ricorre quest’anno il bicentenario dalla composizione dell’Infinito, la cui nascita si fa convenzionalmente risalire al 28 maggio 1819.