È difficile essere un dio
L'arte può allertare contro la guerra? Il disastro imminente può essere fermato? Quest’ultimo è colpa andche di di quel fruitore che intende l’arte come pura "bellezza" (“la bellezza salverà il mondo”), e non come una forma di linguaggio critico? A tal proposito, come hanno agito gli artisti in Russia negli ultimi anni?
È difficile essere un dio è un film di Aleksej German che racconta la vittoria del male, quando la civiltà preumanistica, trovandosi sulla soglia del Rinascimento, precipita di nuovo nell'oscurità. Tra i film più travagliati della storia del cinema, esso fu ideato nel 1968 e proibito subito dopo l'invasione dei carri armati sovietici a Praga, uscendo sugli schermi soltanto nel 2014, durante i mesi della annessione della Crimea. Il linguaggio del film si è rivelato così complesso e sgradevole che il suo messaggio è rimasto perlopiù inascoltato. È difficile essere un dio, in un certo senso, ha condiviso il destino della Guernica di Picasso, esposta all’Esposizione internazionale di Parigi nel 1937, rivelandosi una sorta di vox clamantis in deserto.
Il film ha in comune con la pittura l'enfasi sostanziale che riesce a porre proprio sulla componente visiva. Pertanto, è naturale paragonarlo a quelle opere di artisti, street-artist e videoclip di rapper, chi trattano del pericolo di un imminente totalitarismo e dele sue possibili conseguenze (ad esempio, Anton Kuznetsov, Pavel Otdelnov, Legalize, Tim Radya, Vitaly Slonov). Le loro opere sono più complesse di un manifesto politico e talvolta al di sopra di una ristretta agenda cronologica e geografica. Il film, dunque, ci permette di discutere di molte, trasversali, questioni ideologiche.