Visita di studio sulle aree di schianti Vaia in Val Gambis, nel Comune di Ville di Fiemme ©Maria Giulia Cantiani

Formazione

Le migrazioni forzate degli alberi

Con Maria Giulia Cantiani a lezione di ecologia per studiare il bosco che verrà, anche nelle aree devastate da Vaia

31 maggio 2023
Versione stampabile
di Elisabetta Brunelli
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Cambio di paesaggio con foreste che proveranno a crescere oltre i duemila metri. Perdita di biodiversità con nuove specie che soppianteranno quelle autoctone. Maggiore frequenza di incendi e incidenza più virulenta di attacchi parassitari. Sono alcuni degli effetti del cambiamento climatico sulle piante che Maria Giulia Cantiani, professoressa del Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e meccanica, illustra nelle lezioni e nei seminari di ecologia e studia nei boschi devastati da Vaia, dove ora si osservano forti segnali di ripresa.

Professoressa Cantiani, quali sono i principali effetti del cambiamento climatico sulla vegetazione?

«I sintomi della situazione di stress della vegetazione sono diversi. Alcuni li osserviamo già con i nostri occhi, anche in città: sono la caduta delle foglie fuori stagione: anticipata o, in altri casi, ritardata. Spesso notiamo poi fioriture fuori epoca e un aumento eccessivo di fruttificazione che, anno dopo anno, indebolisce le piante».

Possiamo parlare di una lotta delle piante per la sopravvivenza?

«In un certo senso, anche le piante hanno la necessità di migrare. Sono delle migrazioni forzate indotte dai parametri climatici che cambiano. Ciò porta le piante a spostarsi sia di altitudine sia di latitudine. Così le foreste nelle nostre montagne si spingono a quote più alte e la tundra dell’Artico è sempre più verdeggiante e ricca di alberi (si parla di “Greening dell’Artico)».

Tutte le piante riusciranno ad adattarsi?

«Alcune specie potrebbero non farcela. Per ragioni di tempo perché gli effetti del cambiamento climatico potrebbero essere più rapidi della loro capacità di adattamento. Penso ad alcune specie come il pino cembro (cirmolo), il maestoso albero tipico delle Alpi, che nei secoli si era adattato alle basse temperature. Un’altra ragione di insuccesso potrebbe essere la mancanza del suolo adatto. Il suolo impiega tempi lunghissimi per formarsi e alle quote più elevate, dove prevalgono rocce e detriti, ad esempio, le foreste potrebbero non trovare il substrato necessario».

Quindi perderemo alcune specie?

«Sì, avremo una perdita di biodiversità. Oltre all’habitat, cambierà anche il paesaggio. Già registriamo incendi più frequenti ad altitudini, in ecosistemi e in periodi dell’anno che si consideravano poco esposti a questo rischio. Un altro fenomeno a cui assistiamo, è l’ingresso di specie di flora esotiche spesso molto competitive. Un esempio è il poligono giapponese, una delle piante più invasive, che sta soppiantando il salice lungo tanti corsi d’acqua europei. Inoltre, è maggiore l’incidenza di attacchi parassitari. Lo vediamo nelle aree che erano state devastate da Vaia: i parassiti con il caldo si riproducono con rapidità e hanno facile presa sugli alberi. Il bostrico dell'abete rosso sta enormemente amplificando le perdite provocate da Vaia».

La tempesta Vaia nell’ottobre del 2018 ha colpito tante aree dell’arco alpino e ha schiantato migliaia di abeti anche nei boschi trentini. Lei coordina un progetto che studia quanto la natura, da sola, sia in grado di ripristinare gli ecosistemi che sono stati distrutti. Ci sono segnali di rinascita e di crescita?

«Ci sono forti segnali di ripresa e, soprattutto dove non è stato portato via il materiale, la natura fa il suo corso e sta ricostituendo gli ecosistemi forestali distrutti. Si sta valutando se non sia meglio lasciare il materiale a terra perché questo, almeno fino a quando il bosco non ricresce un po’, svolgerebbe una funzione antivalanghiva. Lo studio, che nasce da una convenzione tra il Comune di Ville di Fiemme e il Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e meccanica (Dicam), è partito nel 2021, ma è ancora presto per capire come e in quanto tempo la natura sia in grado di rimarginare le ferite. Il 16 giugno sarò lì con i miei studenti per una visita di studio nell’ambito della “Scuola estiva su gestione forestale e servizi ecosistemici”, che organizzo tutti gli anni».

Sempre di più per svolgere una professione con competenza e lungimiranza è necessario conoscere gli effetti della crisi climatica sul pianeta e sulla società. Penso a chi progetta edifici e grandi opere, fa pianificazione del territorio, gestisce le risorse naturali, ma anche a chi sviluppa nuovi modelli turistici. Di qui l’esigenza di offrire un’educazione ecologica di base. Qual è il bilancio del seminario di “Introduzione ai cambiamenti climatici” che come Dicam avete proposto a studenti e studentesse di tutto d’Ateneo?

«Il bilancio è positivo. Abbiamo avuto una novantina di studenti e studentesse di aree disciplinari diverse, con la partecipazione anche di alcuni esterni. Dal questionario di fine seminario è emerso che è stato apprezzato sia l’approccio interdisciplinare agli effetti dei cambiamenti climatici sia il linguaggio accessibile. Il taglio interdipartimentale è stato molto gradito: chi proveniva dalle scienze umane e sociali ha espresso soddisfazione per aver potuto conoscere le basi scientifiche del fenomeno, mentre gli studenti del Dicam e quelli del Dipartimento di Fisica sono rimasti colpiti dalle domande di chi frequenta i corsi delle discipline sociologiche ed economiche, che sono state lo spunto per affrontare il problema in una diversa prospettiva. Nel seminario di dieci incontri abbiamo proposto tanti aspetti del cambiamento climatico e ragionato sulle possibilità di adattamento, ma abbiamo maturato la convinzione unanime che nulla, nella nostra vita e nella nostra professione, deve distoglierci dalla ricerca continua di vie di mitigazione del rischio climatico».

Stava: mostra e conferenza su cause e responsabilità

Fino a mercoledì 7 giugno al Polo di Mesiano (Via Mesiano, 77), davanti ad alcune immagini in mostra, si potrà riflettere su ciò che successe in Val di Stava il 19 luglio 1985, quando il crollo dei bacini di decantazione degli sterili della miniera di fluorite di Prestavèl provocò la morte di 268 persone oltre a ingenti danni ambientali e materiali. Il percorso didattico itinerante è stato realizzato dalla Fondazione Stava 1985 onlus con il patrocinio del Consiglio nazionale delle ricerche per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche e dell’Università di Modena e Reggio Emilia e con il sostegno della Provincia autonoma di Trento, della Regione Emilia-Romagna, della Regione Lombardia e del Comune di Tesero.
La “lezione di Stava” insegna che non vi può essere sviluppo sostenibile senza il rispetto dell’ambiente e della popolazione. La mostra viene ospitata dal Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e meccanica (Dicam) dell’Università di Trento in concomitanza con la conferenza “Cause, genesi e responsabilità del disastro di Stava” che Graziano Lucchi, presidente della Fondazione Stava 1985 onlus, terrà giovedì 1 giugno dalle 11.30 alle 13.30 nell’aula BIB di Mesiano. Il seminario è organizzato nell'ambito dei corsi di Geotecnica e di Ecologia di Lucia Simeoni, professoressa della laurea triennale in Ingegneria per l'Ambiente e il Territorio del Dicam.