Immagine tratta dalla locandina dell'evento

Formazione

SCIENZIATI AL FRONTE: MORALE E PATRIOTTISMO

Il contributo ambivalente della ricerca scientifica nella prima Guerra mondiale e nel successivo sviluppo della società europea

22 gennaio 2015
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Renato G. Mazzolini
di Renato G. Mazzolini
Professore ordinario di Storia della scienza presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento.

Successiva alla grande rivoluzione industriale dell’Ottocento, la prima guerra mondiale presentò caratteristiche tecnologiche che la distinguevano nettamente da tutte quelle precedenti non solo per gli armamenti, ma anche per il movimento delle truppe che potevano utilizzare treni, camion e auto blindate. In un editoriale di Nature dell’ottobre 1914 venne scritto “Questa guerra, in contrasto con tutte le guerre precedenti, è una guerra in cui scienza pura e applicata hanno un ruolo rilevante”. Nel giugno del 1915 lo scrittore di fantascienza H. G. Wells pubblicò su The Times una lettera di protesta per la poca attenzione prestata dal governo agli scienziati e il nessun rispetto dimostrato “per il metodo scientifico nella conduzione della guerra”. L’uccisione del giovane e brillante fisico Henry Moseley sulle spiagge di Gallipoli il 10 agosto dello stesso anno, mentre telefonava un ordine alla sua divisione, suscitò un coro di critiche, tra cui quella del suo maestro, Ernest Rutherford, che definì la sua morte uno spreco economico “equivalente all’uso del Lusitania [il grande transatlantico britannico] per il trasporto di una libra di burro da Ramsgate a Margate”.

È stato calcolato che dei 160 diplomati delle classi 1911-13 dell’École normale supérieure 80 furono uccisi e 60 feriti. Un’intera generazione di fisici fu così eliminata dalla guerra. Tra gli alleati, all’inizio del conflitto, la mobilitazione degli scienziati nella ricerca bellica fu assai limitata. Essa, infatti, riguardava principalmente la valutazione delle migliaia di proposte di invenzioni che provenivano da semplici soldati o cittadini ed era soggetta al controllo dei militari. Tuttavia, dopo che i tedeschi, il 22 aprile 1915, scagliarono 6.000 cilindri contenenti cloro sulle truppe francesi a Ypres, la mobilitazione si fece più decisa ed articolata. Il chimico organico James Bryant Conant partecipò con numerosi colleghi alla realizzazione di un centro presso l’American University di Washington, ove si produsse un gas ancora più letale (l’iprite) di quello realizzato da Fritz Haber in Germania. È ben noto come la moglie di Haber, il chimico Clara Immerwahr, dopo essere venuta a conoscenza dell’eccidio di Ypres, si sia suicidata con la pistola del marito. Tuttavia, né Haber né Conant ebbero mai scrupoli morali su quanto avevano realizzato. Haber cercava un’arma che portasse a una vittoria finale più velocemente di quanto potesse fare la guerra di trincea. Egli sosteneva che “la scienza appartiene all’umanità in tempo di pace e alla patria in tempo di guerra”, mentre Conant ebbe a scrivere dopo la guerra che a lui lo sviluppo di gas tossici nuovi e più potenti “non pareva più immorale della manifattura di armi ed esplosivi”.

La tecnologia più significativa della prima guerra mondiale non fu, comunque, quella dei gas tossici, ma quella collegata alla costruzione dei sottomarini e alla loro rilevazione. Nei primi tre mesi del 1917 le U-boats tedesche affondarono più di un milione e trecentomila tonnellate di navi alleate. Il fisico sperimentale americano Robert Millikan sostenne che scoprire i sommergibili era “un puro e semplice problema di fisica”, alludendo alla possibilità di individuarli utilizzando la propagazione del suono sott’acqua. Ottenne sovvenzioni dal braccio operativo della National Academy of Sciences e stabilì una stazione sperimentale in cui operarono 32 fisici accademici, navi e 700 uomini. La ricerca, che poi condusse alla realizzazione dei primi tipi di sonar, fu transnazionale e vi contribuirono in modo determinante francesi (Paul Langevin), inglesi (Albert Wood) e canadesi (Robert W. Boyle).

Nella relazione del 17 dicembre scorso sul tema “Guerra, scienza e tecnologia”, corredata da una splendida selezione di fotografie, il professor Luigi Tomassini ha posto in evidenza come durante la prima guerra mondiale siano state create nei paesi alleati istituzioni che hanno legato tra loro ricerca scientifica e tecnologica, apparato industriale ed economia, e come alcune di tali istituzioni siano sopravvissute dopo la guerra. Ha mostrato il ruolo determinante svolto da alcuni scienziati nella mobilitazione dei colleghi e nella realizzazione di istituzioni e gruppi di ricerca, soffermandosi in particolare sul matematico Paul-Prudent Painlevé in Francia, sull’astrofisico George Ellery Hale negli Stati Uniti, e sul matematico Vito Volterra in Italia. Infine ha sottolineato come la guerra abbia introdotto nuove forme di organizzazione della ricerca, abbia segnato la fine del tradizionale internazionalismo scientifico e del presunto pacifismo degli scienziati. Colpisce a tale proposito la voce solitaria del fisiologo Georg Friedrich Nicolai che scrisse un “Appello agli Europei” (firmato anche da Einstein, Buek e Foerster), in cui prevedeva che la guerra sarebbe stata l’inevitabile origine di conflitti futuri. Esso fu pubblicato per la prima volta a Zurigo nel 1917 nella sua opera Die Biologie des Krieges, che ebbe ampia circolazione europea anche per la traduzione inglese del 1918.