Luciano Floridi. Foto archivio Università di Trento

Formazione

LE PAROLE DELL’ERA DIGITALE

Una lezione del filosofo dell’Informazione Luciano Floridi inaugura il master in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione

26 ottobre 2018
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Alberto Brodesco
di Alberto Brodesco
Lavora al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. Insegna Science on Screen al master SciComm.

Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica dell’Informazione dell’Università di Oxford, è stato ospite dell’Ateneo dove ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Il capitale semantico nell’era digitale” in occasione dell’inaugurazione del master in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione(SciComm).

Professor Floridi, possiamo iniziare dal suo lavoro sulla terminologia? I suoi nuovi concetti come “iper-storia”, “on-life”, “suggeritore”. C’è bisogno di un nuovo modo di pensare e quindi di nuove parole?
La nuova terminologia che cerca di acchiappare le idee, di cogliere i fenomeni è un classico: da sempre filosofi e filosofe stravolgono un po’ il linguaggio, inventano neologismi, spezzano le parole, le ricombinano. Nel tempo via via che c’era bisogno di cogliere un fenomeno specifico ho trovato utile coniare quel termine. Quando poi è venuto il momento di raccogliere molte di queste idee in un singolo libro, è venuta fuori una lunga lista di neologismi: “info-sfera”, “in-forma”, “on-life”, “iper-storia”. 

È molto interessante la sua scelta del termine “suggeritore”, per definire la tecnologia. Come ha scelto questa parola?
L’idea che la tecnologia sia un suggeritore, o come si dice in inglese un “prompter” [suggeritore teatrale, ndr], nasce dall’esigenza di vedere la tecnologia come un qualcosa che offre delle opportunità, che dà delle occasioni per risolvere i problemi in un modo o nell’altro. Ho cercato di cogliere una sfumatura che a volte sfugge, cioè la tecnologia non tanto come strumento, ma come suggeritore di applicazioni di primo, secondo e terzo ordine. La distinzione è abbastanza semplice: si parte dall’idea che la tecnologia stia tra noi e la natura, come ad esempio una scelta tra me e l’albero; poi a un certo punto, nell’evoluzione della tecnologia, essa si pone tra l’umanità e altra tecnologia. Ad esempio, possiamo immaginare un martello e un chiodo, allora ci siamo io, il martello e il chiodo, ma il chiodo a sua volta è tecnologia, e quindi “secondo ordine”, primo con la natura e secondo con la tecnologia, e poi il “terzo ordine”, nel quale siamo entrati noi, per cui l’umanità stessa viene rimpiazzata dalla tecnologia; e quindi abbiamo tecnologia che usa tecnologia per lavorare con altra tecnologia. Nel libro faccio un esempio di un computer che controlla un robot che costruisce un’automobile. Ecco, quando è il computer che controlla un robot, il quale costruisce un oggetto come un’automobile, il nostro posto qual è? Una tecnologia di “terzo ordine” è alla base dell’idea che oggi stiamo dibattendo in termini di perdita di lavoro. Saremo tutti quanti eliminati dalla tecnologia del “terzo ordine”? Non credo. 

Rispetto al concetto di “on-life”, ha trovato un qualche tipo di resistenza in qualche ramo del sapere, nell’educazione o nella politica, quando parlava pubblicamente di questo concetto?
Ho trovato molta accettazione. In genere, quando si parla di questa idea, l’impressione è che ci sia una sorta di sollievo: finalmente non sono vittima di un dualismo che non c’è più in questo angolo del mondo. Nel mondo più sviluppato, in cui buona parte della popolazione ha accesso a tecnologie, cioè in quelle che noi oggi chiamiamo “società dell’informazione”, continuare a pensare ancora in termini di: “Sei on-line o off-line?”, “Si tratta di uno strumento analogico o digitale?”, vuol dire non aver capito che cosa è successo. Allora la risposta alla domanda è: un senso di sollievo, non devo essere vittima di una dicotomia che non si ha più e ho un termine per cogliere una complessità che oggi è davanti agli occhi di tutti. 

Nei suoi studi emerge un’immagine bifronte dell’umano: inarrivabile, con competenze semantiche non attingibili da un’intelligenza artificiale, e al contempo marginale. Lei definisce l’antropocentrismo “un eccesso”. Le altre tre precedenti rivoluzioni ci hanno allontanato dall’idea di uomo come centro dell’universo. Anche questa quarta, quindi? 
Sì, una quarta rivoluzione che ci continua a decentralizzare e ci ricorda che ogni tentativo di ri-centralizzazione è destinato a fallire. È proprio il meta-progetto umano universale, questo di essere al centro di qualcosa, che non funziona. C’è una lezione importante da fare nostra, e sarebbe bello che la facessimo nostra ora, ossia che da oggi in poi pensassimo in termini non di centralità, ma di periferia. Occorre mettere al centro del discorso etico non tanto chi riceve l’azione, ma soprattutto la relazione tra chi agisce e chi reagisce. Per dirlo in modo un po’ più semplice: pensiamo a Renzo e Lucia. Non è che se prima si metteva al centro Renzo ora dobbiamo insegnare a Renzo a mettere Lucia al centro; dobbiamo invece insegnare a Renzo e a Lucia a mettere al centro la loro relazione. Perché a quel punto tutti e due contribuiranno dalla periferia al loro futuro matrimonio. Se continuiamo su questa strada guardando al mondo dell’innovazione e della ricerca, avremo veramente un cambiamento di prospettiva. A me pare che a volte ci sia un’intrinseca necessità di egocentrismo nella nostra natura, e che quindi non sia tanto una questione di acquisire una volta per tutte, ma di capire che così è come vanno le cose, e quindi di educarci sempre nuovamente, per ogni generazione che arriva. È l’acquisizione di certe trasformazioni, che devono essere ripetute culturalmente a ogni generazione. In questo modo potremmo far ereditare alla nostra cultura un “antropo-eccentrismo”, cioè una centralità delle relazioni che al momento non abbiamo ancora.